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Pubblicato da il 20 Lug 2014 in Frammenti | 0 Commenti

1914-1918. La guerra da non dimenticare (V. Giacomin)

1914-1918. La guerra da non dimenticare (V. Giacomin)

Molte persone della mia età hanno avuto i nonni che hanno combattuto nei vari fronti della prima guerra mondiale.
La prima guerra mondiale è scoppiata da cento anni, eppure il suo ricordo è ancora in gran parte di noi molto vivo, ancorché il mondo abbia iniziato ad andare di fretta.
Moltissimi di noi ricorderanno i giorni di scolari alle elementari, quando il 4 novembre si andava a commemorare, cantando canzoni piene di retorica, l’armistizio firmato con l’impero austro-ungarico. Molte delle nostre conoscenze sulla prima e terribile guerra mondiale sono racchiuse qui; nelle canzoni che cantavamo da bambini, sui gesti eroici compiuti in battaglia letti sui libri di scuola, sul racconto del tanfo della trincea fatto dai nostri nonni o dalla visione delle trincee ancora presenti sui nostri monti, su ciò che la macchina della retorica ha scritto in questo secolo a proposito di questa grande e tremenda prova collettiva.
Lo scorso 28 giugno sono scoccati i cento anni dall’attentato avvenuto a Sarajevo da parte di alcuni sprovveduti ragazzi che intrisi di idee di libertà e di nazionalismo hanno attentato alla vita dell’arciduca D’Asburgo e di sua moglie.
Quel gesto, quasi involontario, tanta era stata goffa la sua preparazione, è stato preso a pretesto dai “grandi” di allora per scatenare il più grande primo massacro che la storia ricordi.
Quanta falsità e disinformazione, quanta retorica anche in questo! Sono passati cento anni da quel tragico giorno e ancora l’Europa non è riuscita a da dare una risposta ultima a questo evento così tragico e tremendo.
Leggevo domenica scorsa, a questo proposito, la lettera del nostro Presidente della Repubblica, pubblicata su un importante quotidiano, trovando in essa ancora parole dense di retorica; la guerra, “prima grande esperienza collettiva del popolo italiano”.
Parole che se da un lato celebrano, come giusto, il sacrificio di molti, dall’altro non vogliono guardare a ciò che Ceronetti magistralmente fissa con una domanda: “ma è davvero finita questa guerra?”
Su questa domanda mi interessa esprimere un pensiero, che altri hanno già maturato, provando ad illustrare le cause di questo conflitto, ma più ancora cercando di capire perché stiamo correndo il rischio che questa guerra non sia ancora terminata, visto che la stiamo praticando in varie parti del mondo, per le stesse ragioni che portarono a questo conflitto.
La persona che forse più di tutti ha capito, con grande anticipo, che cosa fosse l’Europa e dove stava andando è stato senza dubbio Nietzsche.
Con altrettanta chiarezza e lungimiranza Cacciari a proposito dell’Europa scriveva già nel 1997 sulla necessità di un “nuovo inizio”, di un “contraccolpo” alla storia dell’Europa. Galimberti sottolineava, riprendendo Nietzsche, che perché questo “nuovo inizio” avvenga vi è la necessità del tramonto dell’ ”ultimo uomo” descritto da Nietzsche, colui che ha una grande “capacità di adattamento”. Nietzsche scriveva che l’ultimo uomo farà degli “Europei dell’avvenire, lavoratori di vario genere, loquaci, abulici e atti a qualsiasi impiego, bisognosi del padrone, di uno che comandi, come del pane quotidiano. E così la democratizzazione dell’Europa tende alla generazione di un tipo predisposto alla schiavitù, nel senso più sottile, e insieme a un’involontaria organizzazione per l’allevamento dei tiranni – intendendo questa parola in ogni senso, anche in quello più spirituale” (Al di là del bene e del male).
Questo era il clima di quell’Europa che si stava sfasciando già a partire dalle guerre napoleoniche. Un’ Europa senza una guida, accecata dai miti dell’imperialismo, del profitto, dello sfruttamento delle masse, dalla rincorsa al controllo delle materie prime, dalla pretesa delle colonie, percorsa da micidiali nazionalismi, irredentismi, attraversata dal socialismo e dal comunismo che nella seconda Internazionale (nel 1914) vedeva già il proprio naufragio, incapace di porre un netto rifiuto alla guerra.
Il mondo intellettuale di quel tempo – anche sospinto dal pensiero di volontà di potenza – era inebriato dall’idea della guerra, era incapace di vedere che gli assetti del mondo stavano cambiando e che i poli dominanti emergenti erano gli Stati Uniti (entrati in guerra nel 1917) e la Russia; vagheggiava miti inesistenti, instupidendo e imbonendo masse umili e docili per prepararle al massacro.
L’Italia intellettuale degli anni precedenti alla guerra era intrisa del pensiero di Marinetti e D’Annunzio, figure molto attive a favore di una propaganda che vedeva nella guerra il solo modo possibile per riscattare il mondo.
Famoso è il punto 9 del manifesto futurista pubblicato nel febbraio del 1909 :”Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”.
E su questo clima, in altri paesi, altri intellettuali vivevano intensamente questi stessi sentimenti, offrendo se stessi alla battaglia.
Franz Marc (volontario al fronte) interpretava la guerra come un evento fortissimo dentro al quale potevano trovare posto insieme la catastrofe e la redenzione; la guerra diventava pertanto un evento che entrava con forza nella storia, unico mezzo che poteva assicurare il movimento della storia verso il futuro.
Se si vedono le immagini iniziali di un bellissimo film, “Joyeux Noel”, si può vedere con quanto entusiasmo due ragazzi scozzesi scelgono di partire volontari per il fronte.
Scrive Marc nell’aforisma 23: “E’ pur sempre meglio costruire con ardore appoggiandosi all’azione rigeneratrice della guerra, piuttosto che accordarsi nella fosca profezia dei pessimisti, dei poveri di idee e degli stanchi. Poiché noi soli, solo la nostra chiara volontà determina il candido destino”.
In questo contesto di idee (che avevano trovato vita a partire dai primi dell’ottocento, amplificate dopo il 1870 e ancor più nei primi del ‘900) si sono innestate una serie di altre responsabilità, che hanno portato al conflitto, quali la falsità dell’aggressione, il patriottismo, l’imperialismo, il profitto, la politica coloniale feroce che mirava alla spartizione del mondo. Queste le ragioni fondanti a giustificazione della guerra, molte purtroppo ancora attuali, oltre al clima culturale sopra descritto.
L’esperienza psicologica del tramonto di un mondo, perché anche di questo si è trattato, è stata vissuta principalmente nel mondo della mitteleuropa – gli italiani pensavano di avere di fronte una superpotenza e invece ciò che era in atto era il declino rapido e irreversibile di un impero – e solo poche persone, le più acute, vivevano con chiarezza il senso di smarrimento che i tempi stavano segnando.
Joseph Roth scriveva che la guerra non è mondiale perché l’ha fatta tutto il mondo, “ma perché tutti noi, in seguito a essa, abbiamo perduto un mondo, il nostro mondo…”; Freud nel 1915 scriveva: “Ci pare mai che un evento storico abbia distrutto in tal misura il così prezioso patrimonio comune dell’umanità, turbato talmente tante e più lucide intelligenze, inabissato quanto così profondamente tutto quanto vi è di elevato”.
Sul piano più strettamente italiano, al di là del pensiero degli intellettuali, si può dire che la politica, nel tentativo di governare le masse, si divideva tra neutralisti e interventisti.
Vi erano in questi ambiti varie sfumature: gli stessi cattolici raccoglievano propensioni molto diverse. Padre Gemelli, ad esempio, esortò i cattolici ad obbedire comunque, sia in caso di intervento, sia in caso contrario, all’autorità civile. I socialisti contrari alla guerra tuttavia aderirono al motto: “né aderire né sabotare”.
In questa situazione il campo interventistico, seppur all’inizio minoritario, sospinto dal vento irredentista e neo-risorgimentale, ma ancor più dal fascino nazionalista fatto di rifiuto per la mediocrità della politica e della vita, di disprezzo per le masse, di propensioni antidemocratiche e ovviamente antisocialiste, ebbe il sopravvento; l’Italia scelse di aderire all’Intesa e il 26 aprile 1915, segretamente, firmò il trattato di Londra.
Il Parlamento accettò il fatto compiuto e il 20 maggio 1915 approvò l’entrata in guerra dell’Italia. Quattro giorni dopo vi fu la dichiarazione di guerra contro l’Austria. L’Italia quindi, che per lungo tempo era stata neutrale – non vi era alcuna ragione apparente perché scegliesse di aderire al conflitto – scelse la strada dell’opportunismo, della “vittoria facile”, dell’espansione dei propri confini, della volontà di potenza.
Ciò che avvenne dopo è storia più o meno nota, forse lo sono meno i mutamenti della classe operaia, l’aumento del lavoro femminile, il ruolo della donna nella società e nella famiglia, l’insubordinazione operaia durante il conflitto.
Sono molti gli aspetti che meriterebbero di esser indagati e conosciuti. Ma per tornare alla domanda di Ceronetti, se esiste cioè il rischio concreto che questa guerra sia ancora attiva, che cosa è possibile mettere in campo per cambiare rotta? Cosa fare perché l’Europa assuma questa consapevolezza?
Come non vedere nei nazionalismi ancora imperanti, nel rifiuto dello straniero, nel non rispetto delle masse, nella ricerca del controllo delle materie prime, un imperialismo ancora attivo, in altre parole gli stessi mali di un secolo fa.
Mi pare che una risposta molto lucida l’abbia fornita, già 1997, Cacciari; nel suo libro L’Arcipelago, un testo illuminante che mostra come l’Arcipelago non sia solo la disseminazione di isole, ma anche e soprattutto la loro relazione, il fatto di essere bagnate dallo stesso mare, che le costringe ad un confronto, nel bene o nel male. Si tratta pertanto di inseguire una relazione che non riduca le differenze a unità, e che salvi le individualità di ciascuno.
L’unico possibile futuro per l’uomo europeo che intimamente mira a una patria, ad un centro, passa solo e attraverso la sua capacità di riattivare l’antico simbolo (L’Arcipelago) da cui è nato, cercando di esprimere “la comunità di coloro che amano solo separarsi e allontanarsi, la comunità di quelli che non hanno comunità”, essendo consapevoli che l’unica legge che ci può salvare “è nell’essere amici nell’essere stranieri”.
Queste parole mettono in luce con crudezza quanta strada deve ancora percorrere l’Unione Europea e quanto incombente sia il pericolo della guerra.
Essendo purtroppo le masse popolari del tutto inascoltate, allora come ora, ma anche del tutto incapaci di esprimere una proposta concreta e chiara, appare difficile pensare che si possano orientare, o sostenere, strategie politiche ed economiche che rimettano al centro degli interessi di ognuno l’idea di Arcipelago.
Quello che possiamo fare però in questo anno di celebrazioni che ognuno di noi è chiamato a vivere, e a proporre, è ciò che ci suggerisce Ceronetti nella consapevolezza che la guerra non è finita: “La pura storiografia dei fatti non serve che a rievocare e fare racconto. Ai cimiteri di guerra sparsi in tutta Europa, in qualsiasi lingua siano scritti quei nomi, fate pellegrinaggi, portate fiori e fiori e fiori. E là, piangete per l’uomo”.

 

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Vittorio Giacomin,
Monticello Conte Otto (VI), 07 luglio 2014

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