4 novembre 2021: “Il Milite Ignoto e il giovane Montini” (E. Versace)
Il futuro Paolo VI, a piazza Venezia per l’arrivo della salma, parlò di «spettacolo d’esaltazione nazionale». Definì la guerra «suicidio dell’umanità» e metteva in guardia da un distorto patriottismo.
Il 4 novembre 1921, nel terzo anniversario della conclusione della Prima guerra mondiale, il futuro Papa Paolo VI si trovava in piazza Venezia, insieme al padre Giorgio Montini, deputato del Partito popolare, per assistere agli onori tributati alla salma del Milite Ignoto, che dalla basilica patriarcale di Aquileia (dove era stata scelta da Maria Bergamas, madre di un irredentista disperso, tra undici bare di soldati sconosciuti rinvenuti nei diversi campi di battaglia) era stata portata a Roma e solennemente deposta al Vittoriano, accompagnata dal suono delle campane e dai colpi di cannone. Il futuro pontefice fu impressionato e commosso dalla massiccia partecipazione di popolo e in una lettera ai familiari osservò che la «manifestazione per il Soldato Ignoto è stata ciò che di più grandioso si poteva immaginare ». L’imponente cerimonia aveva radunato nella capitale, insieme alle massime autorità del Regno, circa trecentomila persone da tante parti del Paese: si trattava in gran parte di reduci di quel conflitto, di decorati dei diversi reggimenti, invalidi, mutilati, vedove e madri di fanti caduti e dispersi, seguiti da bande militari che fecero risuonare le note della celebre ‘Leggenda del Piave’ e, composto dallo stesso autore per quell’occasione, dell’ ‘Inno al Milite Ignoto’. Agli occhi del sacerdote bresciano tutto questo apparve come «uno spettacolo d’esaltazione nazionale». Montini aveva accolto nei giorni precedenti una rappresentanza di reduci giunti da Brescia nella capitale «per le onoranze al Soldato d’Italia», mentre solo due mesi prima, dal 3 all’8 settembre, si era svolto a Roma il Congresso nazionale della Gioventù cattolica italiana, in occasione del cinquantesimo di fondazione, al quale presero parte oltre ventimila giovani che, come riportò don Giovanni Battista al fratello Lodovico, «pregarono per i nostri morti di guerra, in ginocchio, in piazza Venezia». Un così eclatante slancio emotivo si può comprendere pensando a quanto le associazioni giovanili cattoliche, nel triennio di guerra, tra il 24 maggio del 1915 e il 4 novembre del 1918, vennero depauperate dalla chiamata alle armi. Ricostruendo le vicende della Fuci di quegli anni, Montini qualificò la prima guerra mondiale un «flagello inondante». «Forse – scriveva in un opuscolo a metà degli anni Venti – nessun’altra associazione diede una percentuale più alta di soldati alla patria». La Fuci venne privata anche dei vertici nazionali (tra di essi andarono al fronte i dirigenti e futuri parlamentari democristiani Achille Marazza, Giovanni Battista Migliori e Giuseppe Spataro). Furono gli assistenti ecclesiastici a tenere in vita l’associazione, continuando ad ‘assistere’ i giovani fucini in guerra, incoraggiandoli e sostenendoli (sembra che l’assistente ecclesiastico generale della Fuci, monsignor Gian Domenico Pini, abbia scritto oltre 14.000 lettere). Mentre il fratello maggiore di Montini, Lodovico, fu impegnato nel conflitto, Giovanni Battista, dichiarato inabile, seguì ogni evento della guerra, arrivando a temere anche per le sorti della sua Brescia, minacciata dall’avanzata degli austriaci. E, ricordando quelli che definiva «i vinti incolpevoli di Caporetto» e «non traditori», qualche anno dopo riconosceva «la dignità civile e militare» del Paese. Raccontava nel 1916, durante il secondo anno di guerra: «Li seguiamo tutti i nostri soldati e al di sopra di ogni ricreazione, in fondo ad ogni chiasso sta il pensiero di loro, pensiero d’amore, di gratitudine, di compassione, di preghiera». Eppure il «desiderio delle notizie ci fa dimenticare la gravità delle notizie stesse: quanti ti sanno ripetere tutto il giornale e non sanno cosa significhi guerra – osservava Montini nel settembre di quello stesso anno – E invece a dispetto d’ogni discorso, d’ogni civiltà, imperversa questo immane suicidio dell’umanità ». Molto significativa, per il giovane Montini non ancora sacerdote, era stata la presenza al fronte come cappellani militari dell’amico di poco più grande don Francesco Galloni e soprattutto dell’oratoriano padre Giulio Bevilacqua, il maestro che ebbe tanta influenza nella sua formazione, tanto che, nel 1948, in un lettera, il Sostituto Montini definirà l’amicizia con padre Bevilacqua come la «più fedele, più paterna e più cara», e da Papa, Paolo VI conferirà a padre Bevilacqua la porpora cardinalizia, concedendogli il permesso di restare da cardinale a vivere nella sua parrocchia bresciana. Quando nella primavera del 1915 il Comandante supremo Luigi Cadorna reintrodusse nel regio esercito il ruolo di cappellano militare che era stato soppresso nel 1870, padre Bevilacqua chiese di arruolarsi in tale veste, spinto da motivazioni pastorali e, dopo aver concluso il corso di allievo ufficiale, nel marzo del 1917 poté raggiungere la prima linea del fronte col grado di sottotenente degli alpini. In quel contesto l’ardimentoso sacerdote oratoriano riuscì persino a organizzare un commercio clandestino con gli avversari per scambiare pane e generi di conforto. Padre Bevilacqua, che nel giugno del 1917 si era prodigato in maniera infaticabile per confortare e soccorrere i feriti nella battaglia dell’Ortigara, ricevendone due medaglie al valor mi-litare, dopo la rotta di Caporetto fu catturato e condotto in un campo di concentramento in Boemia dove, alla vigilia di Natale del 1917, sfidando i divieti celebrò la Messa senza un altare, attorno a un rozzo tavolo dove, si narra, «nella sua logora veste di alpino, tiene in mano il Vangelo e dice cosa sia il Natale». Quest’atto di disobbedienza costò a Bevilacqua il trasferimento nel più duro campo di prigionia di Horowitz, in cui riuscì a tenere delle conferenze per gli ufficiali prigionieri incentrate sul prologo del Vangelo di Giovanni. Un suo compagno nel carcere in Boemia testimoniò come solo due cose contassero per padre Bevilacqua, «Cristo e la realtà. E bisogna farle incontrare». La luce nelle tenebre fu il titolo del libro che padre Bevilacqua pubblicò nel 1921, con una prefazione di Agostino Gemelli. Recensendo il volume sulla rivista bre- sciana ‘La Fionda’, Montini ritrovò compendiata in quest’opera la personalità collettiva «dell’uomo moderno, del pensatore d’oggi con tutte le energie, le stanchezze, i dubbi, le lotte, gli sconforti, e le speranze che le crisi filosofiche, scientifiche, religiose e sociali hanno suscitato nella spossata anima del nostro secolo». «La catastrofe parla – aveva scritto Giovanni Battista nel giorno della vittoria, il 4 novembre del 1918, al fratello Lodovico (..) – Parla la storia, e ci parla, come un chirografo vergato di sangue, ci parla necessariamente della Provvidenza che sa trarre dal libero intreccio degli eventi umani un prestabilito ordine di bene». Negli scritti giovanili di Montini è possibile rinvenire amor patrio e passione civile, amplificati nel triennio di guerra sotto lo stimolo degli eventi bellici e ispirati dalla storia e dalla tradizione familiare: la nonna paterna, Francesca Buffali, prestò soccorso ai feriti nel 1859, durante le battaglie della Seconda guerra di indipendenza, ricevendo l’elogio del garibaldino Nino Bixio, mentre il nonno paterno, Lodovico, nel 1848 si era arruolato nella Prima guerra di indipendenza, combattendo contro gli austriaci. E a molti giovani della stessa generazione di Montini, chiamati alle armi tra il 1915 e il 1918, la guerra contro gli stessi avversari di allora veniva rappresentata dalla propaganda nazionalistica come una quarta e ultima guerra d’indipendenza, necessaria per completare l’Unità d’Italia. Tuttavia, sarà il giovane Montini a spiegare in un articolo su ‘La Fionda’ nel settembre del 1923, intitolato Osservazioni elementari sul patriottismo, il senso più compiuto di questo termine, mettendo in guardia da un distorto sentimento patriottico e dal pensare la patria «come l’unica patria del mondo». Invece il patriota cattolico, «amando la patria – non rinuncia – ad amare l’umanità intera e ad abbracciarla in un sentimento fraterno di unione e solidarietà». Il 4 novembre del 1964 Paolo VI ricevette in udienza un gruppo di reduci. «Siamo convinti – spiegò loro – che un ex combattente, il quale converta in energie morali i ricordi del tragico dramma, abbia in sé una sorgente di alti pensieri e che sia perciò idoneo, se non più a impugnare le armi della guerra, a ben maneggiare quelle della pace». «Coloro che hanno fatto da bravi soldati il loro dovere militare, – concludeva il Papa – ritornati alla vita civile, possono trarre dalla esperienza passata e dalla passione sofferta» un nuovo significato della propria vita, «quello che accresce il bisogno di Dio, il dovere della sua ricerca, la fiducia nella sua Provvidenza, la soddisfazione di credere e di pregare: il senso religioso, e, a ben guardare, il senso cristiano’.
Eliana Versace, “Avvenire”, giovedì 4 novembre 2021