“Brutalità”: “l’involuzione umana” (M. Passarin)
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La brutalità estrema di questo tipo di scontro fu esasperata dal rischio altrettanto drammatico inerente alla resa: il massacro sul posto di coloro che si arrendevano, feriti o no, perpetrato da soldati volontari soprannominati gli spazzini delle trincee.
Nella violenza del corpo a corpo le armi regolamentari erano sostituite da badili, mazze, coltelli, spesso fabbricati dagli stessi soldati.
“Ed ecco che oggi mi trovo con il coltello in mano… Ho sfidato i cannoni, le mine, il fuoco, i gas, le mitragliatrici, tutto il macchinario anonimo, demoniaco, sistematico, cieco. Finalmente sfiderò l’uomo, il mio simile. Una scimmia. Occhio per occhio, dente per dente. A noi due ora. A pugni, a coltellate. Senza pietà. Mi avvento sul mio antagonista. Gli sferro un colpo micidiale. Quasi la testa si stacca dal collo. Ho ammazzato il crucco. Ero più pronto e più veloce di lui. Più diretto. Ho colpito per primo. Io, un poeta, ho il senso della realtà. Ho agito. Ho ucciso. Come colui che vuole vivere”.
Azioni così efferate erano strettamente connesse al processo di disumanizzazione.
La logica sottesa a tale processo presentava due aspetti: da una parte il combattente non era più una persona civile e, dall’altra, il nemico non era più un essere umano.
È importante ricordare che i soldati in trincea avevano perso il controllo di se stessi. I racconti di guerra insistono sul fatto che gli uomini non stavano effettivamente uccidendo: vivevano in un’altra dimensione.
“Avevamo sospeso ogni legge civile e quando sparavamo a qualcuno non pensavamo di uccidere una persona”.
Così si formava un circuito vizioso, le atrocità fomentavano altre atrocità ed erano quindi giustificabili. L’atto di uccidere produceva emozioni forti ed era visto come una componente normale del comportamento in guerra.
Molti storici, psicologi e commentatori militari condividevano l’assunto che l’odio fosse essenziale nello stimolare il desiderio di uccidere e dare agli uomini la capacità di agire in conformità con questo bisogno. L’odio era un “elemento d’acciaio per la mente”. L’impressionante scala di violenza tecnologica costrinse i combattenti a una regressione verso forme di pensiero e comportamento che, come hanno sostenuto molti ufficiali medici psicoterapeuti, ripercorrevano all’indietro le tappe dell’evoluzione umana.
Mauro Passarin, Brutalità, in Catalogo della Mostra tenutasi a Vicenza, Palazzo Chiericati (8.10.2016 – 26.2.2017), a cura di Mauro Passarin, “Ferro, fuoco e sangue! Vivere la grande guerra”, Silvana Editoriale, 2016, p. 107
(* FOTO in evidenza di Maurizio Mazzetto)