Menu Pagine
TwitterRssFacebook
Menu Categorie

Pubblicato da il 14 Ott 2014 in Letture | 0 Commenti

Brani di ERICH MARIA REMARQUE

Brani di ERICH MARIA REMARQUE

1 – da: Niente di nuovo sul fronte occidentale

(Mondadori, 1965, 1a ediz 1931, or. 1929)

 

“Vigliacco!”

a quell’epoca persino i genitori avevano la parola ‘vigliacco’ a portata di mano. Gli è che la gente non aveva la più lontana idea di ciò che stava per accadere. In fondo i soli veramente ragionevoli erano i poveri, i semplici, che stimarono subito la guerra una disgrazia, mentre i benestanti non si tenevano dalla gioia, quantunque proprio essi avrebbero potuto rendersi conto della conseguenze.

Katsinski sostiene che ciò proviene dalla educazione, la quale rende idioti; e quando Kat dice una cosa, ci ha pensato su molto.

(p. 25-26)

 

La fine di un mondo

Il primo fuoco tambureggiante ci rivelò il nostro errore, e dietro ad esso crollò la concezione del mondo che ci avevano insegnata.

Mentre essi continuavano a scrivere e a parlare, noi vedevamo gli ospedali e i moribondi; mentre essi esaltavano la grandezza del servire lo Stato, noi sapevamo già che il terrore della morte è più forte. Non perciò diventammo ribelli, disertori, vigliacchi, – espressioni tutte ch’essi maneggiavano con tanta facilità; – noi amavamo la patria quanto loro, e ad ogni attacco avanzavamo con coraggio; ma ormai sapevamo distinguere, avevamo ad un tratto imparato a guardare le cose in faccia, e vedevamo che del loro mondo non sopravviveva nulla. Improvvisamente, spaventevolmente, ci sentimmo soli, e da soli dovevamo sbrigarcela.

(p. 26-27)

 

Il potere e la rinunzia alla personalità

Ci eravamo arruolati pieni di entusiasmo e di buona volontà: si fece di tutto per spegnere in noi l’uno e l’altra. Dopo tre settimane riuscivamo già a concepire come un portalettere, divenuto per caso un superiore gallonato, potesse esercitare su di noi un potere maggiore di quello che prima non avessero i nostri genitori, i nostri educatori e tutti gli spiriti magni della civiltà – da Platone a Goethe – messi insieme. Coi nostri giovani occhi aperti vedemmo come il classico concetto di patria, quale ce lo insegnarono i nostri maestri, si realizzasse per il momento in una rinunzia della personalità, quale mai non si sarebbe osato imporre alla più umile persona di servizio. Saluto, attenti, passo di parata, present’arm, fianco dest’, fianco sinist’, battere i tacchi, cicchetti e mille piccole torture. Ci eravamo figurati diversamente il nostro compito; sembrava che ci si preparasse all’eroismo come cavalli da circo; ma finimmo coll’abituarci. Comprendemmo anzi che alcune di quelle cose erano necessarie, mentre altre erano del tutto superflue. Per queste cose il soldato ha un fiuto finissimo.

(p. 34)

 

 

Le dichiarazioni di guerra

Kropp invece è un pensatore. Le dichiarazioni di guerra, egli propose, dovrebbero essere una specie di festa popolare, con biglietti d’ingresso e banda, come per i combattimenti dei tori. Poi, nell’arena, i ministri e i generali dei due stati avversari, in calzoncini da bagno e armati di manganello, si azzuffano. Vince il paese di quello che caccia l’altro sotto. Sarebbe assai più semplice e meglio di adesso, che s’ammazzano tra loro persone che non c’entrano.

 (p. 48)

 

Chi è la bestia?

L’urlo non vuole cessare: non possono essere uomini quelli che gridano così orribilmente.

Kat dice: “Cavalli feriti”.

Non m’ è mai accaduto di udire cavalli gridare, e quasi non ci posso credere; quella che geme laggiù è tutta la miseria del mondo, è la povera creatura martirizzata, un dolore selvaggio, atroce, che ci fa impallidire. Detering si rizza: “Assassini! Assassini! Ma ammazzateli, perdio!”.

Egli è agricoltore, ha confidenza coi cavalli; la cosa lo tocca da vicino. E come a farlo apposta, il fuoco ora tace, sicché l’urlo delle bestie si leva più chiaro.

Non si sa donde possa venire, in questo paesaggio argenteo, ora così tranquillo; è invisibile, spettrale, dappertutto, fra la terra e il cielo, si allarga smisurato, enorme. Detering diviene furibondo e urla: “Ma sparate, uccideteli dunque, sacr…!”. (…) Uno ha la pancia squarciata, le interiora pendono fuori. La povera bestia vi s’impiglia con le gambe, stramazza, si rialza. Detering imbraccia il fucile e mira. Kat lo devia, sicché il colpo va in aria.

Sei matto?”. Detering trema e getta a terra il fucile. Ci accoccoliamo e terra e ci turiamo le orecchie. Ma l’orribile lamento, quel gemere, quel pianto, penetra dovunque, e si ode sempre.

Tutti abbiamo imparato a sopportare qualcosa; ma qui il sudore ci imperla la fronte, si vorrebbe alzarsi, fuggire, non importa dove, solo per non udire più quei gridi. E dire che non sono uomini, ma soltanto poveri cavalli. (…) Una delle figure nere mette un ginocchio a terra, si ode un colpo: un cavallo si abbatte, ancora uno. L’ultimo punta sulle gambe davanti, e si gira in tondo come una giostra; si gira in cerchio con la groppa a terra, avrà la spina dorsale fracassata. Un soldato accorre e lo abbatte: lento, umile, scivola a terra.

Ci togliamo le mani dalle orecchie. Il gridare è cessato: solo è nell’aria un lungo gemito, che va spegnendosi lentamente, e poi non v’è più nulla, altro che lo squittire dei razzi, la canzone delle granate e le stelle; e ciò sembra persino strano.

Detering se ne va, bestemmiando. “Vorrei un po’ sapere che colpa hanno loro”. Di lì a poco si riavvicina a noi, e con voce vibrata, quasi solenne, afferma: “Ve lo dico io, l’infamia più grande è che si faccia fare la guerra anche alle bestie”.

 (p. 63-65)

“Crediamo alla guerra”

Anche Krupp ci pensa: “Sarà un affare serio per noi tutti. Che se ne diano pensiero qualche volta, laggiù in paese? Due anni di sparatoria e di bombe a mano, non puoi spogliartene come ti togli una camicia…”.

Siamo d’accordo che è così per tutti: per tutti quelli che in ogni parte del mondo, che siano nelle nostre condizioni, un po’ più, un po’ meno: è il destino comune della nostra generazione.

Alberto trova la formula: “È la guerra che ci ha resi inetti a tutto”.

Ha ragione: non siamo più giovani, non aspiriamo più a prendere il mondo d’assalto. Siamo dei profughi, fuggiamo noi stessi, la nostra vita. Avevamo diciott’anni, e cominciavamo ad amare il mondo, l’esistenza: ci hanno costretto a spararle contro. La prima granata ci ha colpiti al cuore; esclusi ormai dall’attività, dal lavoro, dal progresso, non crediamo più a nulla. Crediamo alla guerra.

(p. 85)

La guerra di trincea

Corriamo indietro, trasciniamo cavalli di Frisia nelle trincee e lasciamo cadere dietro a noi delle bombe a mano che scoppiando ci coprono la ritirata. Dalla posizione retrostante le mitragliatrici sparano per proteggerci.

Siamo diventati belve pericolose. Non combattiamo più, ci difendiamo dall’annientamento. Non scagliamo le bombe contro altri uomini; che cosa ne sappiamo noi di questo momento! Ma di là ci incalza la morte, con quegli elmi e con quelle mani: e dopo tre giorni è la prima volta che la vediamo in viso, che ci possiamo difendere contro di essa; deliriamo di rabbia, non siamo più legati impotenti al patibolo, possiamo distruggere, uccidere a nostra volta, per salvarci e per vendicarci.

Aggrappati ad ogni sinuosità del terreno, a riparo dietro ogni palo di reticolato, gettiamo nelle gambe degli assalitori bombe su bombe prima di ripiegare. Lo schianto delle granate a mano ci dà forza alle braccia, alle gambe; corriamo curvi come gatti, travolti da quest’onda che ci porta e ci fa crudeli, ci fa briganti, assassini, demoni magari, da quest’onda che moltiplica le nostre energie nell’angoscia e nella rabbia e nella sete di vita, e ci fa cercare e conquistare la salvezza.

Dobbiamo abbandonare le trincee più avanzate. Ma sono ancora trincee? Distrutte, annientate non sono che rottami di trincee, buche, qualche pezzo di camminamento, qualche nido di mitragliatrice, nulla più. Ma le perdite degli altri si accumulano, non hanno calcolato su tanta resistenza. (…).

Oh quel ritornare all’attacco! Si è giunti al riparo nelle posizioni di riserva, si vorrebbe penetrarvi carponi, sparire; ed invece bisogna fare dietrofront, ritornare indietro, nell’orrore! Se in questo momento non fossimo degli automi, rimarremmo sdraiati, esauriti, privi di volontà, eppure pazzamente selvaggi e furibondi, bramosi di uccidere poiché di là vi sono ora i nostri nemici mortali, e i loro fucili, le loro granate sono dirette contro di noi, e se non li sterminiamo, essi stermineranno noi.

(p. 105-107)

Abbandonati e perduti

Oggi nella patria della nostra giovinezza noi si camminerebbe come viaggiatori di passaggio: gli eventi ci hanno consumati; siamo divenuti accorti come mercanti, brutali come macellai. Non siamo più spensierati, ma atrocemente indifferenti. Sapremo forse vivere, nella dolce terra: ma quale vita? Abbandonati come fanciulli, disillusi come vecchi, siamo rozzi, tristi, superficiali. Io penso che siamo perduti.

(p. 113)

“La vita se va a goccia a goccia”

Portano via Haje Westhus con la schiena fracassata: a ogni respiro si vede il polmone pulsare fuori dalla ferita: non posso che stringergli la mano: “È finita, Paolo” egli mormora e si morde il braccio dal dolore.

Vediamo vivere uomini a cui manca il cranio; vediamo correre soldati a cui un colpo ha falciato via i due piedi e che inciampicano, sui moncherini scheggiati, fino alla prossima buca; un caporale percorre due chilometri sulle mani, trascinandosi dietro i ginocchi fracassati; un altro va al posto di medicazione premendo le mani contro le budella che traboccano; vediamo uomini senza bocca, senza mandibola, senza volto; troviamo uno che da due ore tiene stretta coi denti l’arteria del braccio per non dissanguarsi; il sole si leva, viene la notte, fischiano le granate, la vita se ne va goccia a goccia.

(p. 123)

“Marceremo: contro chi? Contro chi?”

L’orrore del fronte sparisce quando gli voltiamo le spalle: ne parliamo con freddure volgari e rabbiose: anche quando uno muore, usiamo un’espressione triviale; e così di tutto. È un modo con un altro di non impazzire. Finché prendiamo la vita a questo modo, possiamo resistere.

Ma dimenticare no. Quello che i giornali di guerra stampano, intorno al morale altissimo, al sano umorismo delle truppe che organizzano balletti non appena tornano dal fuoco, sono tutte stupidaggini. Non si fa questo per umorismo, ma perché altrimenti si sarebbe perduti. Del resto anche questo giuoco non potrà durare a lungo, il buon umore si fa di mese in mese più amaro.

E poi so bene: tutto ciò che si affonda in noi, come un mucchio di pietrame, finché dura la guerra, si ridesterà un giorno a guerra finita, e allora comincerà la resa dei conti, per la vita e per la morte.

I giorni, le settimane, gli anni trascorsi in trincea ritorneranno, e i nostri compagni morti sorgeranno e marceranno al nostro fianco; e così marceremo coi nostri morti accanto a noi e con gli anni del fronte dietro le nostre spalle: contro chi? Contro chi?

 (p. 127)

“A che scopo la guerra?”

Ricompare Tjaden, ancora eccitato, e si mescola subito al discorso informandosi in che modo innanzi tutto, scoppi una guerra.

Generalmente è perché un paese ha fatto grave offesa a un altro” risponde Alberto, con una cert’aria sentenziosa.

Ma Tjaden fa il tonto: “Un paese? Non capisco. Una montagna tedesca non può offendere una montagna francese: né un fiume, né un bosco, né un campo di grano…”.

Sei bestia davvero o fai per burla?” brontola Kropp: “non ho mai detto niente di simile: è un popolo che offende un altro ….”

Allora non ho che fare qui; io non mi sento offeso” replica Tjaden.

Ma mettiti bene in zucca” gli fa Alberto stizzito, “che sei un povero villanaccio e non conti nulla.”

E allora, ragion di più perché me ne vada a casa” insiste l’altro, mentre tutti ridono.

Ma mio caro uomo, si tratta del popolo come collettività, ossia dello Stato” grida Muller.

Stato, Stato” e Tjaden con aria furbesca fa schioccare le dita “guardie campestri, polizia, tasse, ecco il vostro Stato. Se è tuo parente, ringrazialo tanto da parte mia.”

Giusto” dice Kat “hai detto per la prima volta una cosa di buon senso, Tjaden. Lo Stato e il paese sono veramente due cose diverse.”

Ma vanno connesse l’una con l’altra” osserva Kropp; “paese senza Stato non esiste.”

Vero: però rifletti un po’ che siamo quasi tutti povera gente, e anche in Francia la gran maggioranza sono operai, manovali, piccoli impiegati. Perché mai un fabbro e un calzolaio francese dovrebbero prendersi il gusto di aggredirci! Credi a me, sono soltanto i governi. Prima di venire qui, io non avevo mai visto un francese, e per la maggior parte dei francesi sarà andata allo stesso modo quanto a noi, nessuno ha chiesto il loro parere, come non hanno chiesto il nostro.”

E allora a che scopo la guerra?” domanda Tjaden.

Kat alza le spalle: “Ci deve esser gente a cui la guerra giova”.

Be’, io non sono del numero” sghignazza Tjaden.

Né tu, né altri qui.”

E chi allora?” insiste Tjaden. “Neanche all’Imperatore la guerra giova: lui ha già tutto quello che gli occorre.”

Non dire questo” interrompe Kat; “finora una guerra non l’aveva avuta. E si sa che ogni imperatore di una certa grandezza deve avere almeno una guerra, altrimenti non diventa famoso. Guarda un po’ nei tuoi libri di scuola, se non è così.”

Anche i generali diventano famosi con la guerra” osserva Detering.

Più ancora degli imperatori” conferma Kat.

Però è certo che dietro v’è altra gente che ci vuole guadagnare” brontola Detering.

Credo piuttosto che si tratti di una specie di febbre” dice Alberto. “In fondo non la vuole nessuno, e poi, ad un dato momento, ecco che la guerra scoppia. Noi non l’abbiamo voluta, gli altri sostengono la stessa cosa; e intanto una metà del mondo la fa, e come!”

Però dall’altra parte si stampano più frottole che da noi” replico io; “pensate un po’ a quei fogli sui prigionieri, dove si diceva che noi mangiamo i bambini belgi. Bisognerebbe impiccarle le canaglie che scrivono cose simili. Sono loro i veri colpevoli.”

(p. 177-179)

 “Perdonami, compagno!”

Il silenzio diventa lungo e vasto. Io mi metto a parlare, debbo parlare. Mi rivolgo al morto e gli dico: “Compagno, io non ti volevo uccidere. Se tu saltassi un’altra volta qua dentro, io non ti ucciderei, purché anche tu fossi ragionevole. Ma prima tu eri per me solo un’idea, una formula di concetti nel mio cervello, che determinava quella risoluzione. Io ho pugnalato codesta formula. Soltanto ora vedo che sei un uomo come me. Allora pensai alle tue bombe a mano, alla tua baionetta, alle tue armi; ora vedo la tua donna, il tuo volto, e quanto ci somigliamo. Perdonami, compagno! Noi vediamo queste cose sempre troppo tardi. Perché non ci hanno mai detto che voi siete poveri cani al pari di noi, che le vostre mamme sono in angoscia per voi, come per noi le nostre, e che abbiamo lo stesso terrore, e la stessa morte e lo stesso patire… Perdonami, compagno, come potevi tu essere mio nemico? Se gettiamo via queste armi e queste uniformi, potresti essere mio fratello, come Kat, come Alberto. Prenditi venti anni della mia vita, compagno, e alzati; prendine di più, perché io non so che cosa ne potrò mai fare”.

(p. 192-193)

“Se non sarà la pace, sarà la rivoluzione”

Tutti parlano di pace e di armistizio. Tutti aspettano. Se anche questa volta fosse una delusione, guai; le speranze son troppo forti, non si possono più rintuzzare senza farle esplodere. Se non sarà la pace, sarà la rivoluzione. (…).

Se fossimo tornati a casa nel 1916, dal dolore e dalla forza delle nostre esperienze si sarebbe sprigionata la tempesta. Ritornando ora, siamo stanchi, depressi, consumati, privi di radici, privi di speranze. Non potremo mai più riprendere il nostro equilibrio.

E neppure ci potranno capire. Davanti a noi infatti sta una generazione che ha, sì, passato con noi questi anni, ma che aveva prima un focolare ed una professione, ed ora ritorna a suoi posti d’un tempo; la quale sarà estranea e ci spingerà da parte. Noi siamo inutili a noi stessi. Andremo avanti, qualcuno si adatterà, altri si rassegneranno e molti rimarranno disorientati per sempre; passeranno gli anni, e finalmente scompariremo.

(…).

Egli cadde nell’ottobre 1918, in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte, che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: “Niente di nuovo sul fronte occidentale”.

(p. 245-247)

 

 

Pubblica un Risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *