Menu Pagine
TwitterRssFacebook
Menu Categorie

Pubblicato da il 5 Ott 2016 in Letture | 0 Commenti

Come far “sorgere l’uomo” (C. Pastorino)

 

IL DUELLO

Oggi è giunto Goderzo. È un uomo sui trentacinque anni; la lunghi baffi arricciati e una calvizie assai innanzi. Apprendiamo subito, perché ce lo dice lui, che egli è professore di filosofia e di pedagogia, e che dirige una scuola normale. È giunto sul tardi, in una sera umida e nebbiosa. Goderzo non è mai stato al fuoco e non sa che cosa sia la guerra. Eppure fin dalla prima sera ci vorrebbe insegnare come essa dovrebbe esser fatta. La sua testa è piena di teorie. Egli parla con sicurezza ed espone lucidamente il suo pensiero. Però nelle sue parole fa capolino l’enfasi: cita i discorsi dei ministri e, dotato di grande memoria, ripete punto per punto i passi migliori. Poi torna alle teorie di guerra. Si direbbe, a sentirlo, che egli sia nato in una trincea, ma noi ben presto ne sentiamo lo stridore, perché le sue non sono che frasi fatte. Quante volte nelle scuole egli deve aver detto le stesse cose! Ci guarda dall’alto al basso e poiché ci vede tutti alquanto più giovani di lui, abbiamo l’impressione che egli ci prenda un poco per scolari. Lo guardiamo trasecolati. La sua loquela ci ha storditi e quasi istupiditi. Bisognerebbe rivoltarsi e dirgli qualche cosa: fermarlo, insomma; ma col nuovo venuto si è sempre molto generosi e la nostra accondiscendenza non ha limiti. Ma egli ne abusa. Padovani comincia a grugnire. Romersi mi urta col gomito. Donzelli sorride fra sé e mi lancia occhiate furtive. Il maggiore che ha finito di mangiare, appoggia il mento al palmo della mano e pensa a qualche cosa; ma quel fiume d’eloquenza costringe a non occuparsi che di lui.

Le prime schermaglie cominciano con Padovani. Egli caccia là quattro o cinque frasi ironiche, ma Goderzo non le coglie. Allora è la volta di Romersi; né Goderzo, sicuro di sé, vi bada. Continua imperterrito. Dove giunterà dunque se non lo fermiamo? E bisogna fermarlo in tempo. La sua è audacia senza precedenti; deve esser punita. In guerra non si entra così. L’ultimo venuto, in guerra, è scolaro di tutti. Non ci si entra da maestri; ma da piccoli scolaretti, che tutto devono imparare. Goderzo dovrebbe capirle queste cose. Chi è venuto un solo giorno prima, ha su di lui già un’incontestabile superiorità. Le leggi della guerra non ammettono eccezioni. Si entra in essa a occhi bassi come in un tempio. Si ha persino tremore dei nostri passi. Si parla a voce bassa e si seguono gli altri, docilmente. Insisto su questo fatto, perché è così per tutti. La padronanza si acquista in questo modo. E che cosa sta cianciando costui? Ciò che egli ha imparato dai libri non vale nulla: li butti pure nel fuoco, i suoi libri. Ahimè, cita anche passi del De Bello Gallico di Cesare; e, più ci ammannisce un intero periodo d’Aristotile, nel testo greco. Ah, questo è troppo. Io non ne posso più. E scatto. Dico qualcosa che forse è forte. Egli si ferma: fissa su di me i suoi occhi chiari e ribatte. Ribatte con mal garbo e s’accende. È finita. Io devo pur sostenere la mia parte; ed egli ribatte con più accanimento. Ora siamo l’uno contro l’altro. Ma io non mi sento umiliato. Questa contesa non la volevo. Il maggiore sempre col mento sul palmo della mano mostra di divertirsi molto. Anche i colleghi si divertono. Io li vedo ridere; e rido anch’io, rido di gusto e non riesco a frenarmi.

Il mio ridere lo esaspera; e tutt’a un tratto, che è che non è, egli mi sfida a duello. Sbalordimento generale. Il maggiore solleva il capo e abbassa il gomito. I colleghi non ridono più. Una cosa simile al fronte non s’era mai udita.

Padovani mi suggerisce: “Accetta”. E prima che io abbia potuto riprendermi, egli aggiunge: “Metto io le condizioni: domani, a mezzogiorno, fra i nostri reticolati e quelli nemici, sulla pendice dello Spil…”.

Non accenna alle armi, perché il maggiore che trova nuova e interessante la cosa, dice: “Ci penseranno le mitragliatrici dello Spil”.

Goderzo non afferra l’ironia e si mostra pronto alla prova.

Ah, pazzo pazzo!” esclamo io allora, e l’abbraccio. “Vuoi che ci uccidano i nemici? E vuoi che ci uccidiamo fra noi? Ma siamo qui per ben altro! Non vedi che siamo come una famiglia? Non t’avvedi di essere entrato in un’accolta di fratelli? Abbassa il capo e dimentica il mondo. Dimentica ciò che hai imparato. Il più umile fantaccino potrebbe tenerti lezione. Metti senno e sii buono. Riparleremo del nostro duello fra otto giorni”.

Il mio abbraccio lo commuove e l’uomo che, per quanto giù giù soffocato, pur viveva sotto il professore e il filosofo, sorge. Gli metto fra le mani un bicchiere e io ne afferro un altro e tocchiamo insieme. Gli altri intonano una canzone, e dopo tanti mesi che non si canta più, eccoci ora tutti coi gomiti sulla tavola, con gli occhi negli occhi, un po’ simili ai beoni nell’osteria; a così felici, così strettamente uniti che la nostra tavola si direbbe non cosa di guerra, ma un banchetto di nozze. Anche Goderzo ci accompagna nel canto e io lo traggo vicino e, se non mi trattengo a tempo, gli cingo il collo col braccio.

Carlo Pastorino, La prova del fuoco, Egon, 2010 (or. 1926), p. 117-118

 

Pubblica un Risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *