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Pubblicato da il 7 Mar 2015 in Letture | 0 Commenti

Dalla Grande Guerra alla speranza (non) delusa di oggi (C. Stajano)

 

Davanti alla bandiera, nello studio di mio padre, mi era parso di essere capitanato nella cappella di una chiesa. Dir bandiera era una finzione. In un cofano di mogano, alto e stretto, si intravedeva uno straccio penzolante dall’asta: del rosso del tricolore un brandello; sul poco bianco un segno informe, resto della croce di Savoia; il verde intatto. Provai una profonda emozione. Dove aveva sventolato la bandiera del reggimento, sulla Bainsizza, sul Carso? Erano stati il vento e la tempesta a ridurla così o le palle dei cannoni austriaci su qualche picco, sull’altopiano, sull’orlo di una trincea nelle mani di un giovane alfiere che, ferito a morte, l’aveva passata a un compagno?

Mio padre mi osservava senza parlare. Il 16 agosto 1915, quasi ragazzo, aveva fatto il giuramento – di solito solenne, nel gran cortile – già in zona di guerra, davanti alle sbrecciate Case Berdini, sottotenente del 65° Reggimento fanteria. Poco dopo era stato ferito gravemente a Santa Maria di Tolmino, la motivazione delle sua prima medaglia d’argento descriveva l’azione con il linguaggio eroico d’uso.

Non esiste soltanto “la bella morte” del principe Andréj e neppure la bandiera lacerata del reggimento custodita nel cofano di mogano che emozionò allora il bambino biondo. Sfuma nel nulla la leggenda infantile dell’onor militare e la suggestione per le uniformi e per le sciabole sguainate ad arco, in onore del re, dei principi e dei generali.

Le immagini crude della realtà calpestano le emozioni, i buoni sentimenti, le leggende dell’amor di patria cantato dai poeti. Fanno sorridere tanti decenni dopo le avventure di guerra dei piccoli alpini narrate dagli scrittori del successo servile portati un tempo a esempio agli scolari innocenti. Non si cancellano le memorie di interi reggimenti mandati a morire per gli ordini dissennati degli Stati maggiori, i paesi e le città distrutti, i popoli in fuga, la fame e le sopraffazioni, i cadaveri che disfano nella melma, il carnaio, le gambe dei soldati morti usate come sostegno dei tavoli, gli scheletri con gli scarponi ai piedi, le povere menti distrutte dalla pazzia, l’oscena morte, altro che bella morte.

La vita non conta in quella guerra e nelle guerre che seguitano, oggi come ieri, a piagare il mondo, diverse solo nella tecnologia, ma identiche nell’odio, nella violenza, nel disprezzo. Milioni di soldati sono caduti sui campi di battaglia, uomini, donne e bambini nelle loro tiepide case, le città sono state tante volte sventrate, gli alberi hanno seguitato a reggere le corde degli impiccati, i padri sono stati torturati e uccisi davanti ai figli, i figli davanti ai padri.

(…).

Molti di loro, nella realtà, si sono svenati per un’Italia migliore. E si ritrovano in un Paese rotto e corrotto, privo di memoria, dimentico di sé stesso, dei suoi momenti alti di dignità e coraggio, l’Unità conquistata col sangue e con l’intelligenza politica, il Piave, la Resistenza, la Costituzione della Repubblica.

(…) il buio / cresce. Le forze scemano. / Dopo che si è lavorato tanti anni / noi siamo ora in una condizione / più difficile di quando / si era appena cominciato. / E il nemico ci sta innanzi / più potente che mai. / Sembra che gli siano cresciute le forze. Ha preso / un’apparenza invincibile. / E noi abbiamo commesso degli errori, / non si può negarlo. / Siamo sempre di meno. Le nostre / parole d’ordine sono confuse. Una parte / delle nostre parole / le ha stravolte il nemico fino a renderle / irriconoscibili (…)”. (* in nota: Bertold Brecht, Poesie, Einaudi, Torino, 1992, p. 160. La poesia, tradotta da Franco Fortini, ha per titolo “A chi esita”).

Nessuna nostalgia, affetti.

Chi ha da dar conto è manchevole, nella cultura, nella politica, nella morale, nella conoscenza della società. L’inquietudine, l’amara oscurità di un domani privo di certezze pesa sui cuori più giovani, soprattutto. Agli albori del terzo millennio, giunti agli sgoccioli dell’esistenza, i superstiti della libertà offrono il loro passato alle generazioni che verranno.

È venuta a mancare anche la speranza. E siccome almeno la speranza nella speranza è doverosa, forse soltanto i versi di un sommo poeta possono, ancora oggi, far da sigillo:

(…) Pensa:

cangiare in inno l’elegia; rifarsi;

non mancar più.

Potere

simili a questi rami

ieri scarniti e nudi ed oggi pieni

di fremiti e di linfe, sentire

noi pur domani tra i profumi e i venti

un riaffluir di sogni, un urger folle

di voci verso un esito; e nel sole

che v’investe, riviere,

rifiorire!

(* in nota: Eugenio Montale, L’Opera in versi, Edizione critica a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, vol. I, Einaudi, Torino, 1980, p. 101. La poesia “Riviere” fa parte della raccolta Ossi di seppia, pubblicata la prima volta nel 1922).

Milano, maggio 2013

Corrado Stajano, La stanza dei fantasmi. Una vita del Novecento, Garzanti, 2013, p. 17-18 e 258-259

 

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