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Pubblicato da il 19 Ago 2015 in Obiettori | 0 Commenti

“Facemmo colazione assieme” (E. Camanni)

“Facemmo colazione assieme” (E. Camanni)

 

Facemmo colazione assieme” (E. Camanni)

Giacomo Perico è un giovane bergamasco come tanti; è nato a Villa d’Almè. Soldato semplice, alpino per vocazione, “duro” per forza, ha fatto solo la seconda elementare e scrive come può, tuttavia il suo diario sgrammaticato è una tra le testimonianze più apprezzate della Guerra Banca perché usa parole inconsuete, non ufficiali. Semplicemente rivela la vera guerra: quella degli ultimi.

Arruolato nella 113a compagnia del battaglione Tirano, l’alpino Giacomo va alla guerra nel 1915. Sale quasi subito a Santa Caterina Valfurva, grazioso alpeggio ai piedi dei ghiacciai. La guerra è cominciata alla fine di maggio e presto arriva il caldo anche sui monti della Valtellina. Le nevi del Cevedale scintillano come ogni estate, invitando gli alpinisti a scalare le cime e i turisti a guardarle da lontano, ma non ci sono più alpinisti a Santa Caterina, e nemmeno turisti, anche se gli alpini usano le stesse attrezzature degli scalatori e se non avessero il fucile a tracolla sembrerebbero ragazzi in gita o in “girata”, come scrive Perico. Giovanottoni in vacanza. Come gli alpinisti, anche gli alpinisti salgono la montagna e hanno bisogno di un valligiano che li guidi sul terreno difficile. La 113a compagnia sceglie la guida di Giuseppe Compagnoni.

Non più giovane ma esperto di ghiaccio e roccia, Compagnoni è un grande marciatore e sa fiutare il cammino; conosce le pareti e i seracchi, le montagne e i montanari. Il “vecio” è di casa sui ghiacciai. “Seguitemi – ordina ai militari del Tirano – e non caricatevi troppo”. Partono a piedi in un pomeriggio di luglio e vanno a bivaccare in una baita di pastori. Ripartono di notte e all’alba sono sulle morene del Cedech, diretti alla capanna. Quando il sole spunta sul Palon della Mare avvistano una pattuglia nemica che scende dal Cevedale. Orrore, sgomento. Gli alpini si irrigidiscono, nessun più fiata nell’aurora.

Eravamo allo scoperto entrambe (le pattuglie), allora guardammo la guida che comprese al volo il nostro smarrimento perché ci sentivamo già presi. Ma la guida si mise a ridere e ci ci raccomanda di non sparare, poi leva il suo cappello sulla punta della piccozza e lo fa ruotare tre volte.

La pattuglia tedesca risponde allo stesso modo e quando ci avviciniamo vengo perfino a sapere il nome del capopattuglia: Arturo. Noi soldati ci guardavamo ed eravamo impalliditi, ma le due guide proseguirono diritte verso la capanna… I tedeschi la raggiunsero per primi e quando anche noi la raggiungemmo essi avevano già acceso il fuoco e intanto questo Arturo ci era venuto incontro ed era disarmato. Le due guide si sono abbracciate ma noi soldati non eravamo per niente tranquilli, comunque siamo entrati nella capanna e ci siamo stretti la mano coi tedeschi. I nostri cuori allora presero un ritmo normale e facemmo colazione assieme.

Le due guide non vogliono sentir parlare di battaglie. Dicono che è già abbastanza faticoso vivere in montagna senza la guerra e che bisognava aiutarsi invece di spararsi. Dicono che hanno sempre scalato in santa pace e che non intendono colorare la neve con il sangue. Anzi dicono “lordare la neve”, che è anche più esplicito. Tradotto dai dialetti delle Valtellina e del Tirolo, significa non insozzare la neve candida della montagna con gli sporchi giochi dei politici e dei generali: non se ne parla nemmeno. Si lasciano di primo mattino stipulando un patto di fedeltà: “Siamo qui in undici e noi saremo sempre fratelli, riconoscendoci coi nostri segnali, ma adesso siamo in guerra e dunque ci salutiamo e ognuno prosegue per la sua strada!”.

Enrico Camanni, Il fuoco e il gelo. La Grande Guerra sulle montagne, Laterza, 2014, p. 33-35

 

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