Fucilati. “Morti per l’Italia” (G. Grasso)
Si chiamava Alessandro Ruffini, era di Castelfidardo. Stava marciando con la sua compagnia nei pressi di Noventa Padovana, in una cupa giornata del novembre 1917, dopo la rotta di Caporetto. Ruffini ha la sfortuna di incrociare lo sguardo di Andrea Graziani, conosciuto come “il generale delle fucilazioni”. Il soldato, forse per sfida, forse per disattenzione, non si toglie la pipa dalla bocca al passaggio del superiore. Graziani non ha dubbi: è insubordinazione. E ordina l’immediata fucilazione del poveretto, che viene eseguita sul posto nonostante le proteste di alcune donne presenti. Chiamato nel 1919 a giustificare il suo gesto, Graziani non si scompone più di tanto: “Valutai tutta la gravità di quella sfida verso un generale, valutai la necessità di dare subito un esempio terribile atto a persuadere tutti i duecentomila sbandati che da quel momento vi era una forza superiore alla loro anarchia”. Graziani non era un sadico, ma un esecutore particolarmente zelante delle direttive del capo di stato maggiore Luigi Cadorna, teorico delle esecuzioni sommarie e delle decimazioni per “dare l’esempio” a un esercito ritenuto indisciplinato e imbelle. La storia dell’artigliere Ruffini – ricostruita recentemente da Cesare Alberto Loverre – è insieme paradigmatica e singolare. Paradigmatica perché riassume, nella sua stolida crudeltà, le centinaia di esecuzioni sommarie compiute nel nome della patria nella Grande Guerra. Ma anche singolare, perché di quell’artigliere sfortunato si parlò a lungo sulla stampa nell’immediato dopoguerra e ci furono interrogazioni parlamentari.
Sono invece sconosciuti molti dei nomi dei soldati incappati nei rigori ferrei della giustizia sommaria: fucilazione immediata sul posto, senza processo, o decimazione. Per loro non c’è neppure la menzione nell’elenco dei caduti. I cosiddetto Albo d’oro. Insieme ai giustiziati dopo regolare sentenza dal tribunale militare, il numero complessivo di soldati passati per le armi realmente accertato è di parecchie decine superiore al migliaio. “Abbiamo contato – spiega lo storico Marco Pluviano, che assieme alla moglie Irene Guerrini ha studiato a fondo la questione – almeno 350 morti tra fucilazioni sommarie, decimazioni e bombardamenti e mitragliamenti di truppe che si sbandavano o si ritiravano arbitrariamente. E poi c’è il buco nero di Caporetto, dove successe di tutto”. Pluviano e Guerrini nel loro libro Fucilate i fanti della Catanzaro (Gaspari 2007) raccontano la triste vicenda della doppia decimazione toccata alla Brigata Catanzaro: la prima volta sull’Altopiano di Asiago; la seconda nelle retrovie del fronte carsico-isontino, dopo una vera e propria rivolta in armi contro i propri ufficiali. (…)
Il professor Roberto Morozzo della Rocca, autore tra l’altro di un libro sui cappellani militari, aggiunge: ”Mi ha sempre colpito che il numero delle condanne a morte fu molto superiore nella Prima guerra mondiale rispetto alla Seconda. La verità è che la guerra ’15-’18 fu voluta dalla classe borghese e liberale ma non fu affatto sentita da un popolo costituito essenzialmente di contadini semianalfabeti. Nelle lettere di soldati al fronte, ce ne son alcune dove si legge: “Ma perché combattiamo per conquistare il Carso? È una terra brulla e non coltivabile”. Questo dimostra la distanza abissale che c’era tra la classe dirigente e il popolo. Molti Paesi hanno fatto il mea culpa. Credo che il minimo che dobbiamo a questi soldati fucilati sia quello di raccogliere i loro nomi e la loro storia”. (…).
Giovanni Grasso, Avvenire, 27.7.2014, p. 21