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Pubblicato da il 6 Dic 2014 in Storia | 0 Commenti

Fuggivano in una realtà più nota: tornavano a sparare (L. Zoja)

 

Malgrado l’introduzione di qualche nuova arma, la stabilità della guerra di trincea impediva di dissanguare il nemico aumentando la sua mortalità. In questo stallo, decisivo per vincere era proprio riuscir a incoraggiare la diserzione e la resa degli avversari. Uccidere chi si dava prigioniero, invece, otteneva esattamente l’effetto contrario: scoraggiava la resa. Ma, nella follia generalizzata, la semplice comparsa del nemico (non delle sue armi, perché stiamo parlando di nemici disarmati) mandava in corto circuito la mente collettiva. Essa, con meccanismo molto simile a quello dell’incubo, reagiva irrazionalmente, con un rifiuto assoluto. Così come l’incubo si sottrae al confronto con qualcosa di troppo “altro” distruggendo il sogno e tornando nella nota vita diurna, i soldati, distruggendo il nemico disarmato si sottraevano all’incontro con un avversario che ormai era un “altro assoluto”: militarmente non più temibile perché non poteva più sparare, ma psicologicamente minaccioso perché era uscito dalla trincea e avanzava a mani alzate in tutta la sua umanità. Così fuggivano in una realtà più nota, cioè tornavano a sparare.

Non è allora una coincidenza che proprio durante la Grande Guerra esploda in forme incontenibili il problema dei soldati sotto shock, affetti da incubi e irrequietudine costante. L’incubo, infatti, è il correlato interiore del confronto quotidiano fra nemici in una guerra totale, di cui la Prima guerra mondiale fu il primo esempio. Anche l’incubo è il rifiuto totale dell’avversario.

Lugi Zoja, Contro Ismene. Considerazioni sulla violenza, Bollati Boringhieri, 2009, p. 74-75

 

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