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Pubblicato da il 27 Set 2018 in Storia | 0 Commenti

I monumenti finalizzati alla guerra (L. Servadio)

La Grande Guerra aveva aperto una ferita, sconvolto gli animi, sovvertito propensioni in ogni ambito, anche nel modo di fare architettura: ne parla Giorgio Gualdrini, architetto e studioso, che ha trattato recentemente l’argomento in un convegno al Museo di San Domenico di Forlì, dove è in corso la grande mostra sull’Art Déco. (…).

Dopo la guerra, specie all’interno delle istituzioni, si manifestò l’esigenza di esprimere quella sorta di elaborazione collettiva del lutto che, nello spazio pubblico, fu declinata attraverso una vera e propria monumentalizzazione della memoria. La prima espressione di questo fu l’intitolazione dell’Altare della Patria al Milite Ignoto: imponente fu la manifestazione di massa del 4 novembre del 1918 (*  1921?; ndr). (l’opera dell’architetto Giuseppe Sacconi era già stata inaugurata nel 1911). L’evento, soprattutto i suoi derivati propagandistici, fu criticato da una delle menti più lucide di allora: Benedetto Croce nelle sue Pagine di Guerra si chiese: “Far festa perché? La nostra Italia esce da questa guerra come da una grave e mortale malattia, con piaghe aperte (…) E la stessa desolazione è nel mondo tutto, tra i popoli nostri alleati e tra i nostri avversari, uomini come noi, desolati più di noi”. I cimiteri di guerra avrebbero consentito di interrogarsi sul senso della tragedia, ma anche qui prevalse la retorica della vittoria. A partire dal notissimo sacrario di Redipuglia. Il primo Cimitero degli Invitti collocato sul colle Sant’Elia era composto da grandi anelli concentrici con semplici e meste sepolture nel terreno. Completato nel 1923, il regime fascista volle sostituirlo, sul colle opposto, col monumentale Sacrario realizzato nel 1932 dall’architetto Giuseppe Grecchi”.

Analogamente accadde nelle architetture di nuova realizzazione nelle città. “Quasi ovunque – sottolinea Gualdrini – prevalse l’approccio celebrativo, tanto caldeggiato da Gabriele D’Annunzio quanto osteggiato da Croce, il quale, più propenso a intendere la memoria della guerra nei termini di una ‘pensosa pietas’, non esitò a parlare di una vera e propria ‘monumentomania’”. Contro la quale si scagliò, inascoltato, anche Carlo Carrà. Del pittore milanese, già futurista e interventista, restano memorabili gli interventi sulle riviste “Valori plastici” e “L’artista moderno”: “Se non si porranno seri ripari al vizio monumentario post-bellico chissà dove andremo a finire. Alla vista di tanti fantocci di marmo e di bronzo di già le nostre ciglia battono di sgomento” scrisse nel 1920. La maggior parte dei monumenti, spesso di modestissimo valore artistico, vennero collocati in luoghi ben visibili e rappresentativi: parchi, piazze, incroci, accentuando l’aspetto teatrale del gesto eroico. Rare le eccezioni come quella rappresentata, nel parco di Brisighella, del Fante che dorme (1926-1927), che lo scultore Domenico Rambelli colse in un gesto di quotidiana umanità. La propaganda si accentuò con l’insediamento del regime fascista. Proliferarono le “Piazze della vittoria” e gli “Archi di trionfo”: memorabile quello di Genova, progettato da Marcello Piacentini unitamente alla piazza, punteggiata da monumentali fasci littori a sostegno di inneggianti figure femminili. E l’inutile strage si monumentalizzò in schiere di lapidi, targhe, prospetti urbani. Il nazionalismo si sostituì alla sofferenza delle famiglie, forse solo in alcuni parchi e viali della rimembranza la memoria della guerra riuscì a esprimere un sentimento privo di ampollosità”.

Leonardo Servadio, Grande Guerra. Per esaltare la vittoria, l’architettura nazionalista spazzò via il cocente dolore di un intero popolo, in Avvenire, 29 giugno 2017, p. 23

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