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Pubblicato da il 24 Ago 2018 in Storia | 0 Commenti

“Il ‘generalissimo’ Cadorna: quello zuccone arrogante” (L. Del Boca)

“Il ‘generalissimo’ Cadorna: quello zuccone arrogante” (L. Del Boca)

Numerosi sono i responsabili della carneficina della grande guerra mondiale. Per stupidità, per inettitudine, per vigliaccheria o per noncuranza. Ma, volendo indicare un nome che, più di altri, porti su di sé il peso della colpa, bisognerà additare il capo di stato maggiore Luigi Cadorna. Uno zuccone arrogante. (…).

Lo chiamarono “generalissimo”, superlativo assoluto passato alla storia che gli restò appiccicato come un marchio. Stessa cosa per il suo stato maggiore, a Udine, che diventò, il “comandissimo”. Cadorna era un uomo testardo, ostinato, autoritario, che non ammetteva limiti al suo potere. Detestava la classe politica e non manteneva rapporti con il capo del governo, figurarsi con ministri e parlamentari. Li disprezzava: “Piccoli uomini, piccole idee”. (…).

Generalissimo? Poche ore dopo esser stato nominato capo di stato maggiore, prima ancora di verificare i piani militari, Luigi Cadorna si preoccupò del generoso pacchetto di azioni dell’Ansaldo che aveva acquistato. L’Ansaldo era l’azienda che – più di tutti – finanziava i guerrafondai di casa nostra perché soffiassero sul fuoco del conflitto, in modo da renderlo inevitabile. (…).

Alla vigilia di Caporetto, in previsione di un’offensiva degli austriaci, ai reparti italiani vennero ritirate le licenze, sospesi i premessi e raddoppiati di turni di servizio. Lui, dopo aver dato disposizioni ferree affinché nessuno si muovesse dal suo posto, partì per Vicenza per riposarsi. Vacanza “breve”, s’intende, dalla quale tornò giusto in tempo per assistere al disastro del suo esercito, ma solo perché il tempo si era guastato: pioveva e non si poteva godere appieno del tempo libero. (…).

Con largo abuso di ipocrisia, per decenni, la maggior parte degli storici l’ha trattato con i guanti bianchi, dicendo e non dicendo (come è loro costume), alludendo, dove non era proprio possibile farne a meno, ma in modo che i resoconti non risultassero troppo comprensibili se non per gli addetti ai lavori. Nelle pagine dei libri, Luigi Cadorna risultava in uomo tutto d’un pezzo, ligio al dovere e allo spirito di sacrificio. (…).

Le biografie autorizzate assicurarono che, nell’esercito “raccoglieva importanti consensi”: “apprezzato” dai gradi medio-bassi, “assai stimato” dagli ufficiali di carriera e, addirittura, “amato” dalla truppa. Tuttavia, più di tanti giudizi, suggeriti per sentito dire, con neghittosa piaggeria, conta quello del padre di Angelo Del Boca, che, avendo portato a casa la pelle dal fronte della Prima guerra mondiale, era in grado di proporre ricordi personali e commenti autentici. E lui riteneva che Cadorna fosse il verto responsabile di quell’immenso disastro che, con fragili pretesti, sacrificò generazioni di “abili e arruolati” fino ai ”ragazzi del ’99”.

Il giudizio più spietato e più autentico lo formulò davanti al monumento ai caduti di Boca: “Ricordo un nome: Cadorna. Lui era il nostro vero nemico… Ci sono venticinque nomi incisi su questa pietra: quattro portano il nostro cognome e altri otto sono lontani parenti. Adesso, capisci perché odio Cadorna?”. (…).

Era inappuntabile nel servizio, con la divisa sempre in ordine, ma alieno dal pavoneggiarsi e abbastanza lontano dalla mondanità. Caserma e famiglia, robuste passeggiate e letture edificanti. I Vangeli, i Salmi, l’Imitazione di Cristo sempre sul comodino e, volendo sconfinare dalle tematiche religiose, la Divina Commedia di Dante, della quale conosceva interi canti a memoria. (…).

Le sue idee stavano in un “libretto rosso” che ogni ufficiale conservava nel taschino della giubba per consultarlo al momento dei dubbi. Che si risolvevano mandando avanti giovani che non sarebbero più tornati indietro: migliaia di ragazzi destinati a finire nei cimiteri o negli ospedali per la dogmatica certezza del generalissimo nelle “spallate” a viso aperto, ritenute capaci di abbattere il fronte avversario. (…).

Bersaglieri e fantaccini l’“attacco frontale” dovevano realizzarlo personalmente. Anche se il nemico non si appiattiva e non tirava alto, come stava scritto nel manuale distruzione. A quella gente, il coraggio venne iniettato artificialmente con massicce dosi di grappa e di cognac. E quando i fiaschi non bastarono più, entrarono in azione i plotoni di esecuzione, che in fretta e spesso senza processo mandarono al muro chi appariva titubante nel correre a farsi ammazzare. Dovevano essere esecuzione “esemplari”, che servissero da esempi e da deterrente. A eseguire la sentenza venivano chiamati i militari del paese della vittima, in modo che anche la famiglia, nella vita civile, fosse colpita da un marchio d’infamia. (…)

Sconfitto sull’Isonzo dai nemici veri, Cadorna pensava di rifarsi distruggendo quelli presunti che secondo lui, sobillando le piazze e polemizzando con le sue scelte militari, compromettevano la solidità morale delle nazione. (…). Cadorna riteneva che riportare tutti all’obbedienza fosse un dovere, e neanche tanto complicato: “Sarebbe stato sufficiente, io credo, arrestare qualche centinaio di caporioni, di propagandisti, liberarne il bel paese trasportandoli sulle coste dell’Eritrea o della Somalia, e sopprimere i giornali e giornalucoli, avvelenatori dello spirito pubblico che pullulavano e che il governo lasciava liberamente pullulare in ogni angolo d’Italia”. (…). Fu a questo zuccone, “nel più duro granito del Verbano tagliato e scalpellato”, che vennero consegnasti il destino e la fortuna dell’Italia.

Lorenzo Del Boca, Maledetta Guerra, Piemme, 2015, p. 160-173

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