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Pubblicato da il 17 Mar 2018 in Storia | 0 Commenti

La forza, cancro delle nazioni (V. Foa)

 

L’Italia entrò in guerra nove mesi dopo gli altri paesi, dopo un duro conflitto politico tra neutralisti e interventisti, tra chi voleva stare fuori dalla guerra e chi voleva invece che vi entrasse. Quello scontro fu molto importante per l’immediato futuro del paese: la vittoria dell’interventismo esasperato come nazionalismo e come esaltazione di potenza diede spazio al fascismo. E certo vi contribuì anche il modo in cui si arrivò alla guerra, con la sopraffazione del parlamento e la violazione aperta delle regole democratiche. Ci vollero trent’anni per sanarla, nel 1945.

(…).

Non Giolitti ma il nazionalismo è stato il vero protagonista negli ultimi anni che hanno preceduto la guerra. Esso ha poi dominato tutta la prima metà del secolo in forme diverse da quella originaria e non solo in Italia, anche se è stata l’Italia a inventare ed esportare il fascismo, esperienza di completa rottura nella tradizione della destra. Il nazionalismo lo troviamo all’opera in modo pervasivo e trasversale anche prima della fondazione del partito nazionalista nel 1912, lo troviamo nella cultura in senso stretto e nella mentalità estesa, in ciò che muove le forze politiche più diverse, e non solo della destra.

Nella mia esperienza il nazionalismo è la trasformazione di un sentimento nazionale inteso come ricerca di libertà, di unità, di indipendenza in una idea di nazione come potenza. L’immagine del Risorgimento, di un’Italia che voleva ottenere il diritto di essere nazione in mezzo alle altre con cui cooperare, diventava l’immagine di una nazione che rivendicava la propria differenza come superiorità rispetto alle altre, come sua affermazione di forza. La forza: il nazionalismo era questo, figlio della crescita della propria forza.

I ceti dirigenti dell’economia, della finanza e dell’apparato statale, quelli che si sentivano italiani e si identificavano con il proprio paese, avevano finalmente la consapevolezza della propria identità e avvertivano l’esigenza di svilupparsi all’estero, dovevano farsi valere. La linea diplomatico-militare aveva in Sidney Sonnino uno dei principali esponenti: dopo il fallimento della linea africana di Crispi, egli guardava ai Balcani. L’Impero ottomano si stava dissolvendo e l’Austria-Ungheria, che con la Germania pensava di penetrarvi, era dilaniata dai problemi interni. Sonnino non si rendeva conto che l’area di espansione che andava cercando era ormai occupata dal nazionalismo dei paesi che si erano liberati dal dominio turco, a partire dal nazionalismo serbo, poi croato, di tutti. La crisi ottomana non aveva creato spazi vuoti, su cui ci fosse da lottare con agli austro-ungarici o con i russi per vedere chi arrivava prima a riempirli.

Vittorio Foa, Questo novecento, Einaudi, 1996, p. 16-41

 

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