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Pubblicato da il 6 Dic 2018 in Storia | 0 Commenti

“La Grande guerra e i confini ripensati dal femminismo” (B. Bianchi)

“La Grande guerra e i confini ripensati dal femminismo” (B. Bianchi)

Anticipazioni. Il testo è uno stralcio tratto dall’intervento che l’autrice presenterà nell’ambito del convegno fiorentino «De/clinare percorsi di sottrazione nelle narrazioni di movimenti, pratiche, corpi»

Bruna Bianchi

IL MANIFESTO, EDIZIONE DEL 06.12.2018

Nel corso della Grande guerra i processi di esclusione che lacerarono comunità, popoli e nuclei famigliari, raggiunsero dimensioni inusitate; in quegli anni drammatici la scrittrice cosmopolita Vernon Lee coniò l’espressione «cortina di ferro», espressione che da allora è entrata nel linguaggio politico a designare una linea di confine invalicabile. La ridefinizione violenta dei confini (territoriali, linguistici, ideologici, etnici, di genere) furono esperienze traumatiche che ebbero profonde ripercussioni sulla vita, l’agire e il pensiero delle donne.

FIN DAI PRIMI GIORNI del conflitto nuovi confini separarono violentemente gli amici dai «nemici», i patrioti dai traditori, gli affidabili dagli inaffidabili, i civilizzati dai barbari, e condussero a espulsioni di massa (prevalentemente di donne e bambini), al confinamento di cittadine/i sgradite/i, alla degradazione del corpo femminile e alla violazione del corpo materno. Il progetto aggressivo dei nazionalismi, infatti, fondato sulla violenta esclusione dell’altro, era carico di disprezzo verso le donne. La donna fu considerata come mai prima di allora in Europa, al pari della terra, quella terra che gli eserciti calpestarono oltrepassando il confine, di cui si appropriarono e su cui affermarono il dominio.

LA GUERRA inoltre separò le famiglie, non solo attraverso la lontananza forzata, la barriera che separava il fronte dal fronte interno, ma anche a causa dell’odio che colpì intere comunità di immigrati. Emblematica la condizione delle mogli dei cittadini di nazionalità nemica; come cittadine sgradite vennero espulse, confinate nella terra di nessuno, ridotte ad apolidi, alla condizione di persone senza stato. Prive di personalità giuridica, sposando uno straniero assumevano la cittadinanza del marito. L’atto volontario del matrimonio equivaleva a un espatrio involontario. Queste mogli, e persino le vedove, furono considerate nemiche nel loro stesso paese e straniere nel paese del marito, un paese in cui per lo più non avevano mai vissuto, non avevano legami di parentela o di amicizia, non ne conoscevano la lingua. Altra questione complessa riguarda le conseguenze e l’ambivalenza del superamento del confine domestico. Molte donne, per lo più giovani, si dedicarono al lavoro nelle fabbriche meccaniche o si offrirono per il servizio al fronte come infermiere, attività spesso considerate come fonte di emancipazione. Ma l’acquisizione dei nuovi spazi di libertà e di nuove professionalità nel contesto della morte di massa non poteva non creare disagio e sentimenti contrastanti.

NUMEROSE, infatti, furono coloro che affermarono o sentirono che quel lavoro volto a produrre strumenti di morte o a «rappezzare» corpi di uomini che sarebbero stati rinviati al fronte, aveva oltrepassato i confini dell’etica. Nella protesta, negli atti di sabotaggio o disobbedienza trovarono sollievo, affermarono la propria autonomia, misero alla prova la propria forza morale. Molte sono state le attività e le riflessioni femminili volte ad abbattere «le cortine di ferro» erette dalla guerra per riallacciare i legami: donne illetterate superarono i confini della scrittura, mantennero i legami coniugali, sfidarono i ruoli patriarcali e diedero espressione a nuove forme di intimità coniugale. Con l’intensa opera di traduzione abbatterono le barriere linguistiche e, facendo conoscere lo stato d’animo dei «nemici», fecero opera di ravvicinamento. Attraverso l’aiuto alle vittime di guerra e ai cittadini/e di nazionalità nemica sfidarono i confini tracciati dall’odio e posero le basi per la riconciliazione. Le 1300 donne che varcarono i confini nazionali per recarsi all’Aia a parlare di pace e che li varcarono una seconda volta per recarsi dai capi di stato e dal Papa a presentare le loro proposte, varcarono anche i confini di genere: donne senza il diritto di voto si fecero diplomatiche. Nel corso di quegli anni drammatici si affacciò dunque una visione nuova del confine dal punto di vista femminista e pacifista e una consapevolezza nuova dei compiti dei movimenti delle donne. Tutte le linee artificiali tracciate per segnare una differenza insuperabile e renderla normativa, avrebbero dovuto essere analizzate, sfidate e superate.

SCHEDA

Inizia domani il convegno organizzato dal Giardino dei ciliegi a Firenze dal titolo De/clinare percorsi di sottrazione nelle narrazioni di movimenti, pratiche, corpi.La prima sessione, dalle 15, sarà dedicata al tema «Postcoloniale, decoloniale, neocolonialismi» a cui interverranno – con una introduzione – Clotilde Barbarulli e Liana Borghi; contributi di Fabrice Olivier Dubosc e Paola Zaccaria (coordina Anna Picciolini). L’intera giornata di sabato sarà dedicata ai Femminismi, con Laura Corradi, Rosella Prezzo, Elisa Coco, Carlotta Cossutta e altre (coordinano

Pamela Marelli e Antonella Petricone). Infine domenica, insieme a Bruna Bianchi, Gisella Modica e Barbara Romagnoli.

In collaborazione con la Società italiana delle Letterate.

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