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Pubblicato da il 17 Mar 2018 in Storia | 0 Commenti

La guerra tra consenso popolare e controllo del popolo (V. Foa)

 

Il consenso popolare alla guerra durò poco, solo qualche mese. Esso sparì quando si capì che cos’era la guerra, il suo orrore, la fatica e la paura senza tregua, l’assurdo di una disciplina della morte. Quando poi, nel 1915 e soprattutto nel 1916, vennero le grandi “offensive” (così le chiamavano) e nello spazio di due o tre giorni decine di migliaia di giovani vite vennero annientate senza risultato e scopo, fu difficile trovare tracce di consenso. Il sostegno popolare tornava quando la vittoria sembrava vicina: sostenere la guerra voleva dire allora avvicinare la pace. Naturalmente non parlo qui di coloro che dalla guerra ricavavano lauti guadagni, parlo di quelli che pagavano di persona.

Quel consenso, sia pur breve, ha dato legittimità alle decisioni politiche e militari e ha lasciato il suo segno su tutta la guerra, solleva problemi anche perché viene da molte presone impegnate in percorsi socialisti o cattolici, internazionalisti o pacifisti. E proprio nelle sfera individuale: c’è solo una sola componente nell’identità di ciascuno, o le identità sono diverse, molteplici? Nell’agosto del 1914 si è dimostrata vera la seconda ipotesi e con estrema chiarezza. Un operaio restava un operaio socialista e pacifista ma era contemporaneamente un operaio tedesco o inglese che voleva difendere il suo paese. Non c’era alcun tradimento.

(…).

Politica di potenza? Verso l’esterno, ma anche verso l’interno. L’altro versante della politica di potenza e del nazionalismo era il controllo sociale, il potere sul mondo del lavoro e quindi sulla democrazia. Oltre i normali modi di controllo fu presentato un nuovo, in realtà antico, strumento: la costruzione della frontiera esterna contro una minaccia o verso una speranza. In presenza di una frontiera si attenuano i conflitti interni, anche quelli interni al capitale si ricompongono. Tutta la vicenda del primo Novecento col suo sblocco bellico può essere letta, sia pure con qualche forzatura, come affermazione del ruolo della frontiera esterna in situazioni di grande tensione sociale interna. Fu, è certo, il banco di prova per gli stati nazionali retti da democrazie liberali o da governi costituzionali: essi si dimostrarono sostanzialmente incapaci di reggere al doppio impatto della borghesia famelica di espansione e del movimento operaio in ascesa – per non parlare delle cristi costituzionali o del nascente conflitto fra uomo e donna. Un quadro istituzionale ed economico troppo ristretto rispetto alle forze produttive in espansione e alle minacce rivoluzionarie aveva dato spazio al nazionalismo come strumento di espansione e di coesione interna. Ma tutto questo non bastava più. Si arrivò così alla guerra.

L’imperialismo si era fondato sulla espansione dei poteri statali e sulla crescente egemonia della borghesia industriale sullo stato. Quando nel 1914, proprio sulla questione della guerra, l’industria e le banche entrarono in contrasto tra loro prevalse l’industria, o meglio il suo settore pesante. Alla guerra non si arrivò per la conquista dell’egemonia coloniale, ma per l’egemonia sul continente. Nel 1914, in ogni singolo paese, il nazionalismo si ricongiunse con le tensioni economiche e sociali e creò le basi del consenso popolare. Il proletario, l’operaio si sentiva improvvisamente proiettato a livello mondiale come soggetto nazionale, come cittadino del suo paese, fuori delle classi, fuori dei partiti. Il problema del consenso popolare alla guerra è ancora molto da approfondire sul piano storiografico, ma una sola cosa si può affermare con certezza: che non si trattò si una mistificazione. All’inizio l’atteggiamento attivo, se non entusiasmante, rispetto alla guerra, dimostrò quando il nazionalismo fosse interiorizzato a livello di massa, con un meccanismo mentale inedito che studiosi, poeti, e scrittori avrebbero avuto tutto un secolo per cercare di descrivere, e che gli uomini politici seppero invece, con prontezza, intuire.

Vittorio Foa, Questo novecento, Einaudi, 1996, p. 15-25

 

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