La guerra tra stupidità e disobbedienza (R. Gary)
C’è prima di tutti Tatoche, il dio della stupidità, col sedere rosso da scimmia, la testa da intellettuale di grande levatura, amore sconfinato per le astrazioni; nel 1940 era il cocco e il teorico dei tedeschi; oggi si rifugia sempre più nella scienza pura e spesso lo si può vedere appollaiato sulle spalle dei nostri scienziati; a ogni esplosione nucleare la sua ombra diventa un po’ più alta sopra la terra; la sua malizia preferita sta nel dare alla stupidità una parvenza di genio e nel reclutare tra noi i gradi uomini per assicurare la nostra stessa distruzione.
(…).
Devo aggiungere che, pur avendo anch’io i miei momenti difficili, mi è sempre risultato faticoso compiere l’incredibile sforzo di stupidità necessario e credere seriamente alla guerra e accettarne l’eventualità. Ho anch’io i miei momenti di stupidità, ma non arrivo mai a quelle gloriose altezze dalle quali la carneficina può apparire come una soluzione. Ho sempre considerato la morte un fenomeno deplorevole e infliggerla agli altri è contrario alla mia natura: per farlo, mi ci si devo costringere. Sì, mi è capitato, certo, di uccidere degli uomini, per ubbidienza alla convenzione unanime e sacra del momento; ma fu sempre senza slancio, senza una vera ispirazione. Nessuna causa mi sembra abbastanza giusta e non ci metto il cuore. Non sono poeta quando si tratta di uccidere i miei simili, non so metterci il sugo, non riesco a intonare un inno di odio sacro e uccido senza arte, stupidamente, perché bisogna farlo.
(…)
Una scintilla di fiducia e di ottimismo atavico alberga sempre nel mio cuore, e perché acquisti fulgore basta che le tenebre intorno a me siano più spesse. Che gli uomini si rivelino stupidi fino a doverne piangere, che la divisa di ufficiale francese possa servire da nido alla grettezza e alla stupidità, che delle mani umane, francesi, tedesche, russe, americane, si dimostrino improvvisamente di una stupefacente sporcizia, a me pare tutte le volte che l’ingiustizia provenga da altre parti, e gli uomini mi sembrano essere vittime più che degli strumenti.
Nel momento più duro della mischia politica o militare non smetto di sognare di qualche fronte comune con l’avversario. Il mio egocentrismo mio rende assolutamente inetto per le lotte fratricide e non vedo quale vittoria potrei strappare a coloro che condividono, per le cose essenziali, il mio stesso destino. Non posso essere un animale politico, nella maniera più assoluta, dal momento che mi riconosco continuamente in tutti i miei nemici. È una vera e propria disgrazia.
Romain Gary, LA PROMESSA DELL’ALBA, Neri Pozza, 2006 (or. 1960), 11-12; 232-233; 249-250