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Pubblicato da il 17 Dic 2014 in Storia | 0 Commenti

“La macelleria della modernità” (E. Gentile)

 

La Grande Guerra fu considerata dai suoi contemporanei la prima guerra moderna, combattuta con mezzi e metodi nuovi. Se la modernità si identifica con il “nuovo”, come era convinzione predominante nella cultura e nella mentalità dell’epoca, tutto nella Grande Guerra era moderno, compresa la carneficina di milioni di uomini uccisi, feriti, mutilati, impazziti. E altrettanto moderno era il sentimento di attesa del nuovo che la guerra aveva diffuso. Che cosa sarebbe stato, che cosa avrebbe dovuto essere, il “mondo nuovo”, non era chiaro a tutti; e non tutti quelli che volevano il “nuovo” volevano la stessa cosa. Il contrasto delle opinioni sul mondo nuovo e sull’uomo nuovo divenne un contrasto fra nuove, contrastanti interpretazioni della civiltà moderna, vista attraverso l’esperienza e le conseguenze della Grande Guerra. Fin dall’inizio delle ostilità, alcuni oppositori della guerra avevano previsto le conseguenze catastrofiche che essa avrebbe avuto per l’intera civiltà europea. Come Romain Rolland, all’epoca uno dei più celebri scrittori europei, insignito nel 1915 del premio Nobel per la letteratura. Francese di nascita ma cosmopolita di mente e di cultura, Rolland fu colto di sorpresa dall’inizio delle ostilità, come la massima parte dei suoi contemporanei, ma subito si rese conto, come annotava nel suo diario il 4 agosto 1914, che «questa guerra europea è, dopo secoli, la più grande catastrofe della storia, la rovina delle nostre più sante speranze nella fratellanza umana».

Quando la Grande Guerra iniziò, l’uomo europeo pensava di appartenere a una civiltà che era diventata la civiltà per antonomasia, trionfante ovunque nel mondo. Quando la Grande Guerra cessò, l’uomo europeo aveva perso l’orgoglio della propria superiorità, era angosciato dalla visione di un futuro senza speranza, dove la nozione stessa dell’uomo moderno quale elevata espressione di una superiore civiltà era stata brutalmente annientata dall’esperienza della guerra. «Eravamo dei cittadini laboriosi, siamo diventati degli assassini, dei macellai, dei ladri, degli incendiari», affermava dopo la fine della guerra lo scrittore austriaco Robert Musil, che aveva combattuto sul fronte italiano in Trentino. «La guerra, affermava nel 1936 un soldato francese, non ha fatto di noi soltanto dei cadaveri, degli impotenti, dei ciechi, ma, nel bel mezzo di stupende azioni di sacrificio e di abnegazione, ha risvegliato nel nostro animo antichi istinti di crudeltà e di barbarie, talvolta portandoli al parossismo. A me è capitato… a me che mai ho dato un pugno a qualcuno, a me che ho in orrore il disordine e la brutalità, di provare piacere nell’uccidere».

L’uomo europeo, durante la Grande Guerra, era stato artefice, protagonista e vittima degli «ultimi giorni dell’umanità», come li definì nel 1922 il caustico moralista e critico viennese Karl Kraus, rievocando in un lungo dramma teatrale gli «anni in cui personaggi da operetta recitarono la tragedia dell’umanità». Nell’epilogo del dramma, una voce dall’alto, proveniente dal pianeta Marte, annunciava la punizione inflitta al pianeta degli umani: «Perché alfin sulla vostra ancor trepida terra,/ la vittoria finale ponga fine alla guerra,/ e perché in alcun modo non sia contrastata/ con grande successo l’abbiam bombardata».

La Grande Guerra era stata una guerra europea, ma era diventata “mondiale” perché l’Europa era il centro del mondo, quando il conflitto era iniziato. Quando la guerra finì, il mondo era cambiato e non aveva più un centro. «Noi europei – ricordava nel 1923 il musicista, teologo e medico tedesco Albert Schweitzer – avevamo oltrepassato la soglia del ventesimo secolo con incrollabile fiducia in noi stessi, e quanto si scriveva allora sulla nostra civiltà non faceva che confermare l’ingenua fede nel suo alto valore. Chiunque esprimeva un dubbio veniva guardato con stupore». Ora, dopo la grande guerra, «è chiaro a tutti che la morte della civiltà è data dal tipo del nostro progresso. Ciò che rimane non è più saldo, resta in piedi perché non è stato ancora esposto alla pressione che ha fatto cadere il resto ma, costruito com’è sulla ghiaia, facilmente verrà trascinato via alla prossima frana. Quale processo ha portato nella civiltà tale affievolimento di energia?».

Non stupiscono, dopo l’esperienza della Grande Guerra, le angosce sul destino dell’uomo moderno né le considerazioni sul declino della civiltà occidentale, sulla fine del progresso, sulla crisi della ragione, sulla possibilità stessa, per l’uomo moderno, di costruire una civiltà capace di allontanare definitivamente lo spettro della barbarie dalla vita individuale e collettiva. Mai nel corso della storia umana era accaduto, ai contemporanei di qualsiasi epoca, di vivere in un periodo così breve l’esperienza catastrofica del naufragio di una civiltà che, appena un decennio prima, aveva celebrato il primato della sua universalità, dominando nel mondo con la potenza delle armi, della ricchezza, della scienza e della cultura. Quel che può invece destare stupore, è constatare che le riflessioni sulla catastrofe della civiltà europea e sul destino dell’uomo moderno non erano nuove, ma erano state già quasi tutte anticipate negli anni precedenti la Grande Guerra, nel periodo considerato l’epoca bella della modernità trionfante, quando la civiltà europea raggiunse l’apoteosi con il trionfo della modernità come civiltà universale, e con l’egemonia dell’Europa imperiale nel mondo.

Un capitano francese scrisse in una lettera: «Assistiamo alla fine di un mondo, ai soprassalti di una civiltà che si suicida. Del resto, a parte le sofferenze che questo provoca, non poteva fare di meglio». Enigmatica, meccanica, anonima, diabolica, bestiale, la Grande Guerra appariva come una mostruosa simbiosi fra modernità e barbarie, fra umanità e bestialità, e in questa simbiosi sembrava realizzare effettivamente, con una crudeltà che superava qualsiasi immaginazione, le profezie sulla catastrofe dell’uomo moderno, travolto dalle stesse creature meccaniche che egli aveva inventato per accrescere la sua potenza e il suo dominio. Anzi, la guerra stessa era una nuova apocalisse, cioè una nuova rivelazione sul destino umano, non come previsione profetica del futuro, ma descrizione della realtà del presente: la modernità, per sua essenza catastrofica, aveva compiuto la distruzione della civiltà per mezzo di potenze tecnologiche, seminatrici della morte di massa, che l’uomo moderno aveva inventato per accrescere il suo dominio sulla natura e sul mondo, diventandone alla fine schiavo e vittima.

tratto da: Emilio Gentile, L’apocalisse della modernità. La grande guerra per l’uomo nuovo, Mondadori, 2008 (in Il Sole 24 ore, 30 novembre 2008)

 

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