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Pubblicato da il 22 Dic 2019 in Frammenti | 0 Commenti

Uccidere fraternamente? (F. Cardini)

Franco Cardini, nel presentare un libro di V. Lavenia: “Il catechismo dei soldati. Guerra e cura d’anime in età moderna”, riporta alcuni stralci del testo nel suo articolo dal titolo: “Cappellani militari. Quando i preti vanno alla guerra”.

Dall’articolo ed indirettamente, dal libro, emergerebbe quasi un’inesorabilità di fronte alla guerra. Un’esaltazione dell’ars bellica definita “sublime”. Possibile mai?

“Tuttavia, i cappellani cattolici e riformati – che assistevano le anime, ma anche i corpi delle loro indocili e feroci pecorelle; e che non di rado morivano con loro e per loro – riuscivano spesso in un modo o nell’altro a consolare, a sostenere, ad alleviare, talvolta sul serio a convertire nel vero e pieno senso del termine. Si trattava di dare un senso alla morte “pro rege, pro patria, pro aris et focis”, anche quando alla radice c’erano, troppo sovente, solo la miseria, il vizio (specie quelli del gioco, del vino, delle prostitute), il bisogno, l’ignoranza, l’abiezione, l’incapacità di vivere d’onesto lavoro, l’abitudine a violenza e soperchieria. Eppure, in tutto ciò v’era (e continua ad esserci) qualcosa di sublime. Come nelle parole di quell’anonimo cappellano-diarista dell’imperialregio esercito di Francesco Giuseppe che, nel 1917, insegnava ai suoi Kaiserjäger11 che «vi è stato chiesto, per essere buoni cristiani, di non uccidere. Ma voi siete soldati: il vostro dovere è anche quello di dare e di ricevere la morte. Allora io nel nome del Cristo Figlio di Dio Vivo e Vero non vi chiedo di non uccidere, ma pretendo da voi qualcosa di molto più alto e difficile: di non odiare nemmeno quando combattete, di amare sinceramente il vostro nemico ch’è egli stesso vostro fratello anche nel momento in cui lo uccidete o egli vi uccide in battaglia».

 

(Cfr. Avvenire del 17 gennaio 2014, pag. 13)

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