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Pubblicato da il 3 Mag 2020 in Frammenti | 0 Commenti

Vittime della vittoria (A. Bodrato)

 

La pace perpetua può essere un sogno utopico probabilmente irrealizzabile. La guerra perpetua è l’incubo dell’eterno ritorno a una tragicità storicamente difficile da arginare.

La prima come sogno e la seconda come incubo godono di una loro concreta dimensione di realtà, quella della possibilità sperata, contrapposta alla possibilità temuta e già fin troppo presente. Di fatto, nella storia da noi conosciuta, pace e guerra si sono alternate sui diversi scenari della terra, dove spesso sono persino convissute, separate da qualche fragile linea di confine o da più o meno brevi periodi di armistizio.

Nel secolo scorso, quello in cui tutti gli attuali maggiorenni sono nati, anni interi di pace si possono contare sulle dita della mano, sempre che si chiudano gli occhi su endemici focolai di guerra sparsi qua e là per il mondo. Questo perché quasi mai una guerra si chiude con la chiara vittoria, più o meno pacificante, di uno dei contendenti. Quasi sempre la pace arriva quando le parti in lotta, pur non avendo realizzato il proprio obiettivo, si rendono conto di aver esaurito le risorse vitali a disposizione e accettano di sospendere le ostilità per sottoscrivere quegli accordi diplomatici che qualche anno prima avrebbero risparmiato milioni di vite e miliardi di danni. Il che spesso trasforma la pace, che ne consegue, in una tregua, magari ventennale, come dimostra la prima metà del XX secolo. Cinquantennio in cui si può ben dire che per i potenti della terra le guerre sono come le ciliegie: l’una tira l’altra.

 

Numeri, che numeri non sono

Il 4 novembre scorso ricorreva il centenario della proclamazione del «Bollettino della Vittoria» che annunciava la fine della guerra e la resa dell’Impero asburgico. Fino a non molto tempo fa questa ricorrenza annuale era celebrata come «Festa Nazionale della Vittoria». Oggi, con la riduzione, per austerità, dei giorni di vacanza, è stata declassata a «Festa delle Forze Armate», celebrata con sfilate dei reparti dell’esercito, suoni di fanfare, palchi delle autorità, sventolio di bandiere, inno nazionale e discorso del Presidente della Repubblica. Quest’anno insolitamente meditativo più che celebrativo.

La crisi, infatti, che rischia di compromettere la realizzazione del progetto di unità europea, avviato nei mesi conclusivi della II Guerra Mondiale, poteva e può rimettere in gioco quelle rivalità economiche, politiche e persino territoriali, che sono state all’origine di disastrosi, ripetuti e mai sopiti conflitti. Saggezza ha voluto ricordare la fine di un’orribile guerra non con l’esaltazione dei magri vantaggi ottenuti, ma con la commemorazione dei sacrifici e delle ferite personali e sociali subite e inferte tanto ai cosiddetti nemici quanto agli amici e a se stessi.

Moltissimi e non solo in Italia sono stati i libri, gli articoli e i discorsi pubblici tesi a ricordare che le guerre del primo Novecento sono state le più sanguinose della storia conosciuta. Qualcuno ha persino osservato che i numeri hanno dominato la scena. Numeri impressionanti di morti, di feriti e di traumatizzati nel corpo e nell’anima. Cito per tutti quanto scrive Franz Maciejewski: «La I Guerra Mondiale (la II non sarà da meno) non porta con sé solamente uno spaventoso esercito di morti (17 milioni tra militari e civili) e schiere di mutilati nel corpo (20 milioni). Produce anche decine di migliaia di feriti dell’anima, di menti moralmente devastate, che non riescono a liberarsi dei traumi del fronte e della prigionia e a tornare a una vita normale» («MicroMega» 22 novembre 2018).

 

Marchiati ed emarginati per sempre

È su questi ultimi che voglio soffermarmi, anche perché sono quelli che dal peso della guerra non hanno potuto liberarsi, né con la propria morte, né col lutto per la morte dei propri cari, né con la fine della guerra, né con la proclamazione della «Vittoria». Mi riferisco in particolare ai prigionieri italiani, abbandonati per anni nei campi di concentramento degli Imperi Centrali, a cui la «Patria matrigna» si è sempre rifiutata di inviare aiuti governativi, consentendo a fatica che provvedessero i familiari. 100.000 tra loro morirono di malattia e di fame nei lager e nei campi di lavoro e 500.000 tornarono a casa denutriti e stracciati, da soli, a piedi, guardati con sospetto e disprezzo, accusati di aver vilmente deposto le armi ai piedi dei nemici, invece di «morire da eroi, difendendo, col proprio onore di Italiani, l’onore dell’Italia» (1).

Ma non mi riferisco solo a queste 600.000 vittime misconosciute della Grande Guerra, bensì anche ai «fantaccini», che prigionieri non sono stati fatti perché morti per mano amica, uccisi, quando non suicidi, da ufficiali e carabinieri, incaricati di abbatterli con una fucilata alla schiena se esitavano o rifiutavano di obbedire all’ordine di assalto per non morire mitragliati e abbandonati nella terra di nessuno (2). E oltre a questi, non numerabili e sconosciuti “giustiziati” senza processo, anche ai 750 giustiziati dopo processi sommari per diserzione: sorpresi lontani dai loro reparti o in ritardo dalla licenza, sospettati di voler passare al nemico o accusati di scarso impegno combattivo di fronte allo stesso. Penso, infine, agli sbandati di Caporetto, che al termine del conflitto, insieme agli altri reduci dalla prigionia, internati in appositi campi di raccolta, dovettero affrontare lunghi mesi di detenzione e di interrogatori, conclusisi con 15.000 condanne all’ergastolo, 4028 a morte, la maggioranza delle quali mai eseguite per contumacia o per sopravvenuta amnistia.

Il protrarsi di tali processi ben oltre i giorni della fine della guerra e della firma dei relativi trattati stava, infatti, rendendo il primo dopoguerra una cupa resa dei conti che oscurava gli entusiasmi per il tracollo austriaco: «Un dopoguerra tragico e di difficilissima gestione per tutti, vincitori e vinti, anche perché la “vittoria”, ben più che mutilata, si rivelava inutilmente costosa sia per numero di vite umane perdute che di beni distrutti» (A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, Laterza 1971).

 

Il Santo Macello dei militi ignoti

Bisognava, dunque, segnare una cesura tra tempo della guerra e tempo della vittoria ed ecco una prima amnistia ristretta (fine 1919) e una seconda più generale (1921-1922), ma non una riabilitazione dei condannati. Il tutto affinché il ritorno alla pace potesse essere celebrato come «Vittoria» e «il Gran Macello della Guerra» come provvida opportunità di «Eroismo e di Gloria».

Del resto esaltare il valore catartico e sacrificale della guerra era ormai diventato luogo retorico comune per tutti gli interventisti laici e religiosi di ogni nazione coinvolta nel conflitto. Anzi si può perfino cogliere un’enfasi bellica nazionalista che raggiunge culmini idolatrici (idolatria della Patria a sostituire la millenaria idolatria dell’Impero) nei discorsi e negli scritti di non pochi intellettuali, preti, frati, vescovi e cardinali cattolici e di tutte le altre confessioni cristiane riconosciute (4). Il che ci colpisce soprattutto perché, a cent’anni da quei tragici eventi, in un contesto storico, culturale e politico diversissimo, dobbiamo ammettere che l’Italia, più degli altri paesi belligeranti d’allora, fa fatica a superare il suo passato e a riconoscere che la guerra non risolve ma accresce le rivalità tra i popoli.

Ce lo fa toccare con mano il destino parlamentare del provvedimento proposto nel 2014 al governo dall’ex giudice militare Sergio Dini, in concomitanza con la ricorrenza dell’inizio della guerra (primavera 1914). «Un provvedimento urgente di clemenza che riabiliti tutti i condannati a morte del primo conflitto mondiale … in quanto … anche i caduti sotto il fuoco di un plotone d’esecuzione, obbligati, proprio come tutti gli altri precettati a combattere contro la loro volontà in una guerra di cui non comprendevano gli scopi, sono da annoverare tra i morti per la Patria».

A tutt’oggi, in barba all’urgenza e all’approvazione quasi unanime della Camera, celebrato il centenario per la fine della guerra il 4 novembre 2018, questa riabilitazione non ha ancora visto la luce e il relativo provvedimento giace, in attesa di una seconda lettura, tra i residui inevasi dalla scorsa legislatura, senza qualche ragionevole possibilità che venga reso operativo dall’attuale maggioranza parlamentare (5). Cinque anni sono bastati all’Italia del secolo scorso per provocare oltre un milione di morti propri e altrui. Quanti di più ne occorreranno per cancellare la vergogna di migliaia di innocenti condannati alla morte fisica e civile, senza processo o con processi farsa?

 

 

Aldo Bodrato

in IL FOGLIO. mensile online di alcuni cristiani torinesi, 4 novembre 2018

 

 

Note

(1) «Gli interventisti sono forse una minoranza, ma una minoranza audace e geniale che trascinerà per la gola questa turba di muli e di vigliacchi (il 90% dei soldati semplici, contadini analfabeti schierati in prima linea) a morire da eroi o a vincere come trionfatori» (G. Dorso, “Il popolo d’Italia”, 28-3-1915).

(2) Silvio D’Amico, La vigilia di Caporetto, Diario di guerra 1916-1917, Giunti 1998, p. 302.

(3) A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, Editori Laterza, 1971.

(4) Sul problema, delicatissimo e dimenticato, ma oggi tornato di bruciante attualità, dell’interventismo del clero più attivo e dei giovani cattolici animati da spirito risorgimentale, destinato a travolgere il neutralismo del papa, dovremo ritornare con più attenta documentazione e riflessioni nei mesi prossimi. Per ora mi limito a segnalare due modelli di preghiera per i combattenti. Sul verso di un santino stampato a Milano nell’aprile del 1915 si legge questa preghiera di Padre Agostino Gemelli: «Gesù dolcissimo, accetto la tua Santa volontà. Nella voce della Patria adoro la voce di Dio. Non ricuso la fatica, gli stenti; affronterò la morte stessa se questa è la prova della mia fedeltà. Ch’io, Gesù, ti possa imitare, compiendo colla tua grazia e con qualunque sacrificio, fosse pur della vita, tutto il mio dovere». Una madre canavesana che aveva due figli in guerra, morti l’uno a venti giorni dall’altro, tra il dicembre del ‘17 e il gennaio del ‘18, così invece si rivolgeva al cielo: «Preguma la Madona / ch’arvira cule bumbule / ch’ai fasu mal a gnun / né da na part / né da l’auta».

(5) Appello di 13 preti del Nord Est, in occasione della visita di papa Francesco al sacrario militare di Redipuglia del settembre 2014: «Migliaia e migliaia di soldati sono stati processati e uccisi perché si sono rifiutati di obbedire a comandi contro l’umanità. Sono stati a lungo bollati come vigliacchi e disertori. Per noi sono profetici testimoni di umanità e di pace, meritano di essere esplicitamente ricordati nella celebrazione della memoria».

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